Con queste parole, inizia una versione della nota poesia attribuita a Brecht, ma, a quanto pare, frutto dell’intuizione del reverendo Martin Niemöller. Abbiamo da tempo oltrepassato più di una soglia tra quelle indicate in quella lirica e, in Italia, è abbastanza facile identificare la sorgente della vergognosa deriva da cui siamo circondati: la legge sull’immigrazione di Umberto Bossi e Gianfranco Fini, i due fasci del Duemila sfasciatisi strada facendo, ma subito rimpiazzati da una sguaiata nebulosa neonazista, trasversale a tutti i partiti della destra e del centrodestro. Quella legge del 2002 non è mai stata contrastata dalla sinistra, che, quando era al governo, s’è ben guardata dal disinnescarla. Del resto, sorte analoga ebbe la legge, gemella in bruttura e disumanità, la Carlo Giovanardi e Gianfranco Fini, che, prima di essere dichiarata incostituzionale dalla Consulta con sentenza del 12 febbraio 2014, è riuscita a riempire le galere di immigrati e poveracci distruggendone
l’esistenza, mentre fior di corrotti e delinquenti, piccoli e grandi boss del narcotraffico respiravano l’aria della libertà e i profluvi del libero mercato. Senza contare poi il ministero di Marco Minniti, che ha posto una pietra tombale sulle illusioni di chi ancora ritiene il suo partito di sinistra.
La Bossi-Fini ha battezzato, con l’acqua insanguinata del Mediterraneo, la categoria del “clandestino”, ne ha decretato la disumanizzazione, ha avviato la penetrazione prima lenta poi dilagante dell’ideologia razzista e xenofoba tra i ceti subalterni, ha scatenato nuove “guerre tra i poveri” il cui unico risultato è stato quello di rendere tutti i poveri, tra di loro divisi, sempre più miserabili e i ricchi sempre più potenti e contenti.
Il punto della deriva al quale oggi siamo giunti è segnato, da una parte, dallo scivolamento della polizia italiana verso un modello di polizia politica (fatto non nuovo) al servizio personale del ministro degli Interni (elemento nuovo, tipico delle tirannie) e, dall’altra parte, dall’attacco ormai esplicito e di ampio respiro alla libertà di parola e di espressione. Mentre le zecche neonaziste e le zoccole neofasciste si scatenano in un quotidiano sversamento dei peggiori liquami che il “pensiero” del secolo breve abbia prodotto, godono di una libertà di manovra senza precedenti e della diretta protezione di pezzi importanti dello stato, è ormai proibito al cittadino anche solo criticare l’uomo solo al comando. Le contestazioni nei suoi confronti vengono accuratamente prevenute e represse coi soldi e i mezzi dello stato; è vietato dire che il re è nudo (il che, nonostante gli sforzi di rotocalchi rosa-neri e della rete, rimane uno spettacolo piuttosto disgustoso); non si possono esporre striscioni di protesta, non si può fischiare, protestare, esprimere dissenso o dirgliene quattro come qualsiasi personaggio governativo della repubblica si è sentito sbattere in faccia. Sembra di essere tornati all’epoca Kossiga, quando la lettera “k” era bandita dal dizionario e la sua sola comparsa scatenava manganellate, cariche della polizia, striscioni strappati, fermi e arresti. Persino l’ironia viene perseguita. Immaginiamo che gli stessi cacciatori e liberi tiratori siano sconcertati perché non si può nemmeno esclamare: «Non sparate a salve!», altrimenti si viene tacciati di terrorismo.
In maniera più sottile, e in un’indifferenza raggelante, l’attacco alla libertà di parola, che in questo caso è anche la libertà d’insegnamento e l’autonomia professionale e didattica, prosegue nelle scuola della repubblica. Questo attacco si dispiega in una scuola ormai ridotta dall’ultimo ministro alla penosa finzione di un enorme parcheggio sociale dove viene gettata a marcire il futuro di questa società: quella piccola pattuglia di giovani, impoveriti, futuri disoccupati, disillusi, molte volte ignoranti e demotivati quando non ridotti alla condizione di zombies dipendenti dallo smart e dalla realtà virtuale, o meglio, dall’irrealtà reale. Non è un caso che la scuola venga colpita per prima, in maniera sottile e strisciante: lo fece anche Mussolini che, una volta entrato nella stanza dei bottoni, perseguitò e gettò sul lastrico maestri, insegnanti e docenti che non si inchinavano alle direttive del governo.
Hanno iniziato con la maestra Flavia Lavinia Cassaro di Torino, licenziata in tronco per aver partecipato a una manifestazione antifascista ed essersi rivolta alla polizia, che proteggeva Casapound, con parole ritenute dalla gerarchia scolastica lesive dell’immagine della scuola.
La scorsa settimana a Palermo, la professoressa Rosa Maria Dell’Aria, quarant’anni di onorato e ineccepibile servizio, è stata sospesa con riduzione salariale per quindici giorni, ritenuta responsabile di lesa maestà del barbuto dell’Idroscalo (forse, le uniche acque territoriali italiane che abbia mai contemplato): infatti, gli studenti di una sua classe avevano realizzato un PowerPoint in cui le ultime leggi migratorie del ministro erano messe a confronto con le leggi razziali fasciste del 1938. Ancora più interessante è sapere che, come scrivono i giornali, la denuncia sia partita dal governo, nella persona del sottosegretario Lucia Borgonzoni, e da Casapound, che ha fatto dello spionaggio in rete uno dei suoi principali canali di reclutamento, di intimidazione e di conquista di spazio politico. Ci domandiamo: non ha altro da fare un viceministro? E ancora: Casapound ha dunque il potere provocare l’intervento della polizia per di più su di un terreno che dovrebbe essere intangibile come una scuola? Del resto, il provveditore palermitano in odore di carriera, in alcune sue dichiarazioni, ha fatto chiaramente intendere che il diritto di critica (in realtà, si tratta dei cardini costituzionali della libertà di parola, di pensiero e d’insegnamento) non è illimitato. Tranne per neonazisti e neofascisti e, ovviamente, nani e ballerine al comando.
Infine, tra un giornalista manganellato e l’altro, non ha avuto esito la mobilitazione per la salvezza di Radio radicale, “salvezza” che sarebbe derivata dal rinnovo della convenzione che la lega allo stato italiano. I radicali hanno condotto numerose battaglie contro il finanziamento pubblico dei partiti, salvo poi reclamare a gran voce per sé i soldi dello stato per svolgere un servizio pubblico (che in realtà lo stato avrebbe dovuto assicurare in proprio). Ironia della sorte, questi eroi della lotta contro la partitocrazia, vengono livragati proprio dai loro nipotastri, cioè da quelle formazioni politiche che si sono alimentate in quel brodo caro alla propaganda radicale cucinato con il rifiuto delle ideologie (dove “ideologia” è semplicemente ciò che non piace) e della forma partito, con il trasformismo, l’antipolitica e un presunto pragmatismo i cui effetti abbiamo imparato a conoscere.
Ovviamente nessuna nostalgia per la degenerazione di cui la politica ha sofferto in maniere sempre più ampia a partire dagli anni Settanta ed è evidente che il “pragmatismo governativo” che ha chiuso i rubinetti a Radio radicale, oltre che ispirare un vago retrogusto di vendetta, rimane un altro aspetto dell’attacco in corso alle libertà costituzionali.
Come volevasi dimostrare, gli strangolatori delle libertà sono già andati oltre gli “zingari”.