di Marco Travaglini
Sono passati trentacinque dall’11 giugno del 1984, il giorno in cui è morto Enrico Berlinguer. Gli fu fatale l’ultimo comizio tenuto qualche giorno prima a Padova in vista dell’appuntamento elettorale per il rinnovo del parlamento europeo. Le immagini, per lo più in bianco e nero, ci rimandano il suo viso scavato, il corpo minuto. Una velata malinconia nello sguardo, il timbro di una voce antica. Quella stessa voce che proponeva – con lucidità – una visione del mondo nuova; la necessità di portarsi dietro tutti in scelte più avanzate, di cambiamento, dove impegnare i destini di un popolo che si diceva comunista, ma di un tipo del tutto originale, italiano e democratico, innervato nella Costituzione repubblicana. Quell’uomo che sembrava così fragile, si chiamava Enrico Berlinguer. Gentile, riluttante, pacato, colto. Uomo di unità, affezionato alle speranze dei giovani, schivo e apparentemente inadatto alla leadership al punto che – come qualcuno disse – stava male prima di ogni incontro televisivo. Un uomo, secondo Alfredo Reichlin (scomparso un paio d'anni or sono, con il quale ebbi l’onore di lavorare quand’era direttore de “L’Unità”, giornale glorioso che ora non c’è più) che per conformazione fisica e psicologica «poteva fare il bibliotecario», ma che si dimostrò un eccezionale e insostituibile «capo di un popolo».
La folla che lo salutò in occasione dei funerali per le strade del centro di Roma fu la testimonianza più evidente dell’amore che il popolo italiano provava per questo uomo gracile e forte allo stesso tempo, partito dalla Sardegna non per fare la «carriera politica» ma per «impegnarsi» nella politica. Tra quei drammatici fotogrammi che accompagnano i suoi ultimi istanti in piazza della Frutta, ce n’è uno, quasi impercettibile a un osservatore poco attento: quello del suo ultimo sorriso alla folla, dopo aver pronunciato le sue ultime parole «...lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini». Sta tutto in quel sorriso la bellezza di Berlinguer. La bellezza di chi ha scelto di occuparsi in maniera disinteressata degli altri; di avere uno scopo nella vita che va oltre se stessi. In quel sorriso è racchiuso un manifesto politico, troppo in fretta archiviato dopo la sua morte e troppo strumentalmente ritirato fuori per esigenze di propaganda. Il sorriso di un uomo che è ancora tra noi perché le sue intuizioni politiche e culturali avevano scavato nel profondo della crisi italiana, ne avevano tirato fuori i nervi scoperti attraverso i quali si poteva vedere il futuro della nostra società e dell’Europa. Un uomo, fatto passare per un conservatore e che, all’opposto, sapeva leggere con visionaria lucidità il cambiamento in corso, cercando di proporre una via d’uscita democratica, non populista. Berlinguer riuscì ad affrontare un tema ostico e da molti mal digerito come l’austerità che non aveva nulla a che vedere con le ricette neoliberiste e monetarie ma con l’idea di affrontare il tema dei consumi e della produzione all’interno di una società più giusta, sobria, solidale, democratica, attraverso una migliore distribuzione dei redditi e una condivisa responsabilità tra le classi che esistevano (ed esistono) ancora. Un discorso che affascinò il cattolicesimo progressista e che confermò quella diversità dei comunisti italiani che si fondava non certo sulla purezza ideologica, ma sull’appartenenza a una comunità e a un’idea della politica basata su una visione morale (e non moralista), intesa come servizio, studio, avanzamento e lotta democratica. Si dirà che il mondo è cambiato, è più veloce, ha altre esigenze, e che sono stati commessi tanti errori lungo il cammino. Nulla può essere più vero. Gi stessi che sostengono questo, tante volte, argomentano di come il nostro paese sia cambiato in peggio, per la crisi e per lo spazio esiguo che hanno le giovani generazioni, per l’assenza di futuro. Forse è cambiato in peggio anche perché, invece di contrastare alcune derive, le abbiamo assecondate; perché si è stati troppo indulgenti nello sposare parole d’ordine, modi di essere, ideologie che non appartengono a una parte che si propone di essere la parte dei più deboli; perché così tanto impegnati a ricercare il futuro si è pensato, più volte in questi anni, di trovarlo gettando via le lezioni del passato.
Ecco perché, senza nostalgie ma con il senso dell’attualità, riemerge potente l’insegnamento di Berlinguer. Perché non basta un tweet per «riempire la propria vita», ma occorre riscoprire il pensiero lungo, quello che invita a guardare al mondo con realismo e creatività, innovazione e obiettivi proiettati nel futuro. Quel «pensiero lungo», che non è ideologia arrugginita né fuga dalla realtà, manca molto alla politica di oggi. E Berlinguer questo «pensiero lungo» lo cercava nelle suggestioni che arrivavano dall’ambientalismo, dal pacifismo, dai movimenti delle donne. Con il sorriso di chi diceva: «Noi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere, della sua felicità. La lotta per questo obiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita». Parole dette con un sorriso, dolce e determinato. Parole di Enrico Berlinguer.
Marco Travaglini