Si è tenuto sabato 12 marzo, presso la Casa della Resistenza di Fondotoce di Verbania il convegno Le stragi nazifasciste tra memoria, storia e ricerca di giustizia. A 70 e più anni di distanza, il bilancio appare quanto mai sconfortante. A fronte di 15 mila morti, tra cui anziani, donne e centinaia di bambini, gli assassini sono rimasti quasi sempre impuniti.
Nel 1994, in uno sgabuzzino della Procura militare di Roma, saltarono fuori 695 fascicoli d’inchiesta sulle più sanguinose stragi nazifasciste in Italia. Lì giacevano, dopo l’ “archiviazione provvisoria” disposta nel 1960 dal procuratore Enrico Santacroce, parte in un armadio con le porte rivolte verso il muro e parte su di una scaffalatura impolverata. Il “ritrovamento” giunse al momento opportuno. Buona parte dei criminali responsabili dei massacri erano scomparsi per cause naturali. D’altro canto, l’implosione del sistema sovietico, il dissolvimento del partito comunista e la chiusura di una drammatica stagione di lotte operaie, avevano fatto venir meno le ragioni della guerra fredda e dell’anticomunismo che avevano procurato a fascistoni e fascistelli vecchi e nuovi coperture, immunità, finanziamenti e vari reimpieghi nella lotta politica quotidiana. Fu il giornalista Franco Giustolisi a chiamare le inchieste occultate nei bugigattoli della procura romana “l’armadio della vergogna”.
In Germania, migliaia di nazisti responsabili ed esecutori degli eccidi in Italia hanno così potuto vivere quella vita, crudamente negata alle loro vittime, senza essere disturbati, nemmeno dalla loro coscienza. Si sono rapidamente reinseriti nella società e nell’economia della “nuova Germania”, ricoprendo più volte, come del resto i repubblichini in Italia, posti di responsabilità e di comando. Esemplare la vicenda del generale Hubert Lanz, massimo responsabile dell’eccidio di Cefalonia, condannato a Norimberga, liberato dopo tre anni da Adenauer, uno dei padri dell’integrazione europea, e destinato nel dopoguerra a una splendida carriera in cui non manca la collaborazione con l’intelligence USA. Il caso di Lanz non è certamente eccezionale. La figlia di una vittima della strage di Cefalonia, che si era rivolta alla magistratura tedesca per avere giustizia, si sentì rispondere da un giudice della nuova Germania democratica che i novemila italiani trucidati sulle isole greche erano disertori e che, di conseguenza, non c’era reato. Questa “motivazione”, la stessa fornita dai nazisti, mette a nudo quel clima di copertura omertosa, di negazione della verità e di silenzi interessati che ha consentito a migliaia di criminali nazisti di rientrare tranquillamente nelle loro case come se niente fosse. E, a settant’anni di distanza, le dichiarazioni dei criminali superstiti su quei fatti, parole agghiaccianti come le risposte dei nazisti ai giudici di Norimberga, non mostrano segni di pentimento né di umanità.
I fascisti repubblichini, che hanno massacrato i loro connazionali in patria e seminato la morte nel mondo, hanno avuto un premio simile. Francia, Grecia, Albania, Russia, ex Jugoslavia, Libia ed Etiopia hanno invano chiesto l’estradizione dei criminali di guerra italiani. La Spagna franchista ovviamente non ha fatto passi in questa direzione anche se la ferocia fascista nella guerra civil fu pari a quella riversata sugli altri popoli. Basti pensare al bombardamento di Barcellona del marzo 1938 che, in pochi minuti, provocò quasi un migliaio di morti innocenti. Tuttavia, la repubblica democratica nata dalla Resistenza, nella persona dei ministri Taviani (DC) e Martino (PLI), disse no e mise in atto un turpe mercato della ragion di stato: l’impunità dei criminali italiani, in cambio della rinuncia a perseguire gli aguzzini tedeschi.
Prima dell’ “armadio della vergogna”, furono istruiti in Italia circa una quindicina di processi sulle stragi nazifasciste. Dopo il 1994, per opera di giovani magistrati e a partire dalla Procura militare della Spezia, è stata avviata una ventina di procedimenti. Alla complessità della materia, che impone agli inquirenti un lavoro colossale ed estenuante, e alla distanza nel tempo, che ha reso impossibile procedere contro i responsabili nel frattempo deceduti, si unisce l’insidia torbida del negazionismo.
Non si tratta tanto di un negazionismo giudiziario o storico, quanto del prolungamento di quel negazionismo mediatico che durante il ventennio berlusconiano ha rimbecillito gli italiani e definitivamente sdoganato i neofascisti, aprendo loro porte, anfratti e sottoboschi del potere. A volte, questo negazionismo è fiancheggiato o favorito da operazioni scorrette, come Hotel Meina di Carlo Lizzani o Miracolo a Sant’Anna di Spike Lee, nelle quali prevale l’esigenza di “rispondere” ai gusti del pubblico e del mercato. Nella forma più comune e subdola, il negazionismo mediatico sulle stragi si insinua nelle coscienze con la domanda retorica: “Vale la pena, dopo 70 anni, accanirsi contro persone anziane ormai innocue?” Dunque, un paese in preda alle convulsioni razziste, che non ha pietà per profughi, annegati, orfani e schiavi, sarebbe capace di esprimere questo delicato stato d’animo di compassione per gli aguzzini dei loro padri e delle loro madri solo perché sono anziani? Quella domanda ha una sola risposta: sì, ne vale la pena, sempre, perché un popolo che non cerca la giustizia non la merita.
Al convegno di Fondotoce sono intervenuti: il giornalista Pier Vittorio Buffa; Marcella Denegri, figlia del capitano Denegri ucciso a Cefalonia; il procuratore militare capo a Roma Marco De Paolis; la dr.ssa Isabella Insolvibile dell’Università di Napoli; Gianmaria Ottolini, Ester Bucchi De Giuli, Antonella Braga e Irene Magistrini della Casa della Resistenza.
20 marzo 2016