Gianfranco Bettin, Giuseppe Ciarallo, Maria Rosa Cutrufelli, Angelo Ferracuti, Marcello Fois, Carlo Lucarelli, Milena Magnani, Giampiero Rigosi, Stefano Tassinari, Massimo Vaggi, Bruno Papignani, Lavoro vivo, Roma, Edizioni Alegre, 2012, pp. 187
Le parole del lavoro sono, secondo l’espressione di Angelo Ferracuti, carnali. C’è anche un detto: quando un lavoratore novello, di primo pelo subisce per la sua precipitazione o sprovvedutezza il primo infortunio, in genere di poco conto, si dice che “il mestiere s’incarna”. Lavoro Vivo, l’antologia promossa dalla FIOM bolognese, vive di parole carnali. Dieci scrittori professionisti scandagliano alcune dimensioni del lavoro presente e passato riprendendo un filone della letteratura italiana certamente non dominante ma comunque dotato di rilievo e dignità. Ne emerge un quadro complesso, coinvolgente e commovente, contraddittorio anche, come discordante è la realtà dei rapporti di produzione. Dieci storie di violenza e di sfruttamento di cui sono protagonisti immigrati nei cantieri, negli appalti, nelle piantagioni, emigranti italiani, lavoratori precari o in nero, aristocrazie operaie orgogliose del loro mestiere e delle loro lotte, operai licenziati dal padrone “progressista” per aver difeso la loro dignità. Ci sono anche vuoti e assenze. Per esempio manca l’operaio-massa, punta avanzata del ciclo di lotte degli anni ’60 e ’70 e protagonista della rottura con le compatibilità del sistema. Anche la sconfitta epocale subita dal movimento operaio nei successivi anni ’80 non trova spazio né spiegazioni. Inoltre, in un momento in cui il lavoro come si è storicamente configurato nel nostro paese sta scomparendo, manca la voce dei senza lavoro e di quei giovani che vivono la condizione di totale alienazione dei “non lavori” e dei “sotto lavori”. Certamente, non era possibile rappresentare tutto. Il libro rimane comunque un tentativo importante di spezzare il silenzio che circonda la questione operaia e anche uno stimolo per riprendere la riflessione sul rapporto tra classe, paese reale e intellettuali nonché sulla frattura marxianamente intesa fra lavoro intellettuale e manuale.
► Un viaggio nello spazio – tempo del lavoro. La raccolta di racconti Lavoro vivo nasce da un’intuizione della FIOM bolognese: spezzare l’assedio del silenzio che attanaglia la condizione lavorativa del secondo millennio dando spazio alla voce degli scrittori. L’effetto è quello di uscire dalla sfera degli strumenti abituali di comunicazione come la denuncia politica, la nota sindacale o la raccolta di testimonianze per entrare in quella della rappresentazione letteraria in grado di mettere in moto i meccanismi dell’immaginazione e delle emozioni e di assicurare, in un panorama di drammatico impoverimento linguistico, una sostanziale qualità della parola.
Il progetto prese forma lo scorso anno durante le iniziative di lotta della FIOM emiliana che giunse alla decisione di concludere la manifestazione del 26 gennaio 2011 portando sul palco di piazza Maggiore a Bologna anche un gruppo di scrittori, tra cui Stefano Tassinari che parlò agli operai. Stefano, scomparso l’8 maggio 2012 per una crudele malattia, è autore di una delle storie più intense dell’antologia, il suo ultimo scritto voluto con la forza d’animo di un comunista in una condizione – come dice il protagonista del suo racconto – di “gambe che non reggono più, di dolori insostenibili alla testa, di depressione sempre più forte e così via”, mentre gli amici si disperdono e si diradano perché “hanno paura di soffrire per conto terzi”.
Lavoro vivo si presenta come un rapido ma profondo viaggio nello spazio – tempo del lavoro. Gianfranco Bettin (Giungla d’appalto) ci conduce con un noir nei meandri dei cantieri navali di Porto Marghera. Giuseppe Ciarallo (Eqquessaè) ripercorre i passi del padre operaio dalla Ciba Industria Chimica della Ghisolfa nel 1964 alla Wolkswagen di Wolfsburg, infine alla Innocenti di Milano. Maria Rosa Cutrufelli (Fuoco a Manhattan) attraversa l’oceano per dare voce ai sopravvissuti alla strage della Triangle di New York, dove, il 25 marzo 1911, morirono in un incendio 146 lavoratrici in gran parte immigrate italiane. Angelo Ferracuti (Manovia) prende spunto dal licenziamento di un delegato sindacale della Tod’s di Comunanza (Ascoli Piceno) nel 2009 per un reato d’opinione: aver difeso in una lettera indirizzata a Diego Della Valle la sua dignità di lavoratore. Marcello Fois (Senza buccia) ambienta la storia di Raimondo-Mundeddu fra la contrada di Santu Predu e i cantieri del nuorese. Carlo Lucarelli (Devo dirti una cosa) ritorna sulla strada del noir per una vicenda così comune da apparire senza luogo e senza tempo: la morte sul lavoro. Milena Magnani (No Cap) cammina in mezzo ai campi di pomidoro e alle baracche degli immigrati africani per narrare lo sciopero del 2011 contro il caporalato. Giampiero Rigosi (Ma scrivere è un lavoro?) si sofferma sul mestiere dello scrittore. Stefano Tassinari (Il ricordo amaro di un’assenza) ripropone il dramma delle morti sul lavoro nello spazio angusto di un reparto di rianimazione e in quello immenso della coscienza e del bilancio di una vita di lotta. Massimo Vaggi (Pezzi di ricambio) approda alle Officine Grandi Riparazioni di Bologna dove duecento lavoratori si sono ammalati per la prolungata esposizione all’amianto.
Nella Postfazione, Bruno Papignani, segretario generale della FIOM di Bologna, chiude l’intero percorso con parole rivolte ai marchionne di turno, tecnocrati, neoliberisti e suoi amici di classe: “Non ci avrete mai come volete voi!”
Aggiungiamo: non ci avrete. Punto.
►Letteratura e industria duemila. In un paese di antica e indiscussa tradizione cortigiana, di soffocante controllo ecclesiastico sulla cultura, e di tarda unificazione linguistica, il tema del lavoro non ha avuto una posizione di rilievo in letteratura. Semplicemente ignorato oppure oggetto di disprezzo nella satira del villano, il lavoro ha suscitato negli scrittori del passato un senso di orrore molto simile a quello del giovin signore di Giuseppe Parini che si sveglia quando i suoi contadini sono ormai consumati da una nuova, interminabile giornata di fatiche. L’Ottocento borghese non ha cambiato molto questo quadro aristocratico, anzi vi ha sovrapposto le coriacee incrostazioni del paternalismo manzoniano, del fatalismo proprio dell’universo sociale immobile di Giovanni Verga e del velleitarismo dannunziano, le cui immaginifiche narici erano infastidite dall’odore del sudore plebeo.
Bisognò attendere il secolo scorso, quando l’Italia iniziò a staccarsi almeno in parte da una condizione di cronica arretratezza industriale ed economica, per ascoltare le prime significative voci di scrittori che hanno rivolto il loro sguardo al mondo del lavoro: per esempio, prima della grande guerra, Paolo Valera e Giovanni Cena oppure Carlo Bernari con Tre operai (1934), Romano Bilenchi con Il capofabbrica (1935) o ancora certe sfumature del neorealismo di cui fu interprete, tra gli altri, Vasco Pratolini; La malora (1954) di Beppe Fenoglio, Una nuvola d’ira (1962) di Giovanni Arpino o, infine, il filone di letteratura e industria con Paolo Volponi, Ottiero Ottieri, Lucio Mastronardi, Goffredo Parise, Giovanni Pirelli, senza dimenticare la perla rara di Elio Pagliarani, col poemetto La ragazza Carla. Tra le opere più recenti, ricordiamo il Padre padrone. L’educazione di un pastore (1975) di Gavino Ledda, in cui il tema di un lavoro schiavizzato è certamente marginale ma di grande attualità; Mammut (1994) di Antonio Pennacchi; La dismissione (2002) di Ermanno Rea. A partire dagli anni Settanta si è infoltito il gruppo dei poeti e scrittori operai, distinti dagli scrittori di professione per la loro esperienza diretta della fabbrica: Ferruccio Brugnaro, Giuliano Bugani, Massimo Camporese, Franco Cardinale, Franco Cigarini, Francesco Currà, Tommaso Di Ciaula, Luigi Di Ruscio, Ilario Dittadi, Fabio Franzin, Giovanni Garancini, Vincenzo Guerrazzi, Gisa Legatti, Francesco Mancuso, Lino Naccari, Alberto Papuzzi, Bernardo Quaranta, Giovanni Rapetti, Donato Rossi, Sandro Sardella, Felice Serino ecc. Detto per inciso, sarebbe una bellissima idea, dopo aver radunato in Lavoro vivo le voci degli scrittori di mestiere, costruire anche per i lavoratori che affidano al racconto o alla poesia la loro esperienza di vita un momento di confronto e di comunicazione.
A partire dagli anni ’70, la rappresentazione letteraria del lavoro si è divaricata tra l’interpretazione di Nanni Balestrini, con Vogliamo tutto (1971), e quella Primo Levi, con La chiave a stella (1978). Alfonso Natella, operaio della FIAT Mirafiori e ispiratore del romanzo di Balestrini, è l’operaio-massa, immigrato dal Sud e scaraventato nella dimensione inumana della catena di montaggio. La sua distanza dalla classe operaia piemontese è incolmabile: “quelli erano tutti pane e lavoro, comunisti; io, almeno, ero qualunquista”. La lotta diventa per lui il momento della rottura, del rifiuto del lavoro e della mediazione sindacale, la costruzione di una nuova dimensione collettiva. Libertino, detto Tino, Faussone, protagonista de La chiave a stella, è invece un operaio privilegiato, estremamente qualificato, talmente specializzato da rientrare a fatica nei limiti di una appartenenza piena alla classe. Solitario, non sindacalizzato, gira il mondo, padrone dei suoi “mezzi” di produzione (gli attrezzi e la propria cultura professionale), affronta quotidianamente le sfide di un mestiere di cui è orgoglioso. Giampiero Rigosi cita nel suo racconto un passo famoso del romanzo di Levi che in qualche modo riecheggia lontanamente la conclusione del Candide volterriano: “L’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono.”
I natella e i faussone si sono quasi estinti, travolti dalla deindustrializzazione e dalla globalizzazione, dal toyotismo e dalla robotica, dalla precarizzazione e dalle nuove schiavitù. In ogni caso, tra Alfonso e Tino le condizioni di stratificazione della classe erano e sono innumerevoli. Per esempio, c’è Cotti, il testimone di Pezzi di ricambio, anche lui orgoglioso del proprio mestiere, non inferiore a Faussone per abilità e intuizione ma al tempo stesso fortemente sindacalizzato e politicizzato, immerso in una dimensione collettiva e “comunitaria” che non rinuncia certo a forme di lotta dura. Per esempio, c’è il Guerriero di Manovia, a cui non piace il proprio mestiere ma che ritiene sempre il lavoro un elemento fondante dell’ordine sociale. Per esempio, c’è Thomas di No Cap che scopre per la prima volta la ribellione e il conflitto ineliminabile tra le classi, maturato spontaneamente sotto il sole dei campi del Sud.
In realtà i veri problemi rimangono, oggi come ieri, quello della ricomposizione del variegato mondo operaio, quello di oltrepassare il guado che separa la “classe in sé” dalla “classe per sé” e, aspetto dimenticato ma fondamentale, quello della ricucitura del divario tra lavoro manuale e intellettuale.
► Variabilità e persistenze nella cultura operaia. La classe produce cultura. Essa muta nei tempi e nei luoghi, può essere subalterna, annichilita dal potere, impossibilitata a produrre egemonia o, in alcune fasi, fortemente minoritaria, ma comunque esiste e rimane un dato ineliminabile del conflitto sociale.
Una componente essenziale di questa cultura è la conoscenza, lo studio, la curiosità nei confronti della realtà lavorativa e più in generale sociale. Spesso, la sua formazione avviene nella veste dell’autodidatta come Guerriero di Manovia: “…studio di notte (…) Quando tutti dormono io studio, leggo, mi faccio una cultura, diciamo. (…) Mi servirà per capire qualcosa in quel tempo che passo nella fabbrica, con quei rumori incredibili, maledetti, piccoli schianti, tonfi continui…” Questa riflessione individuale può diventare un prezioso patrimonio collettivo e le sconfitte sono il più delle volte il risultato di un’insufficienza culturale. Afferma Cotti, l’operaio divorato dal mesotelioma, in Pezzi di ricambio: “Io mi sento malissimo quando penso a quanto fossi ignorante. Non so nemmeno contare le volte in cui mi sono ripetuto, se avessi studiato, se mi fossi accorto del problema, se avessi avuto un’intuizione, e se, e se, e se, magari molti dei miei compagni sarebbero ancora vivi, perché noi del consiglio di fabbrica e poi della Rsu eravamo davvero forti, e se avessimo voluto eravamo capaci di bloccarla, la produzione.”
D’altra parte, alcuni comportamenti dell’agire operaio appaiono quasi istintivi e immutabili nel tempo e nello spazio. In questo modo, in No Cap, Thomas descrive l’inizio della ribellione: “ «Se loro smettono il lavoro anche noi, che siamo sette, smettiamo il nostro».
E quelle loro parole, dette con il tono che si usa per dire una cosa che non si può cambiare, io dico che sono state le parole più belle che ho sentito nella vita, perché grazie a quelle ho capito che cos’è la fratellanza. La fratellanza è una cosa così inaspettata che quando ti arriva che non l’hai chiesta, ti fa sentire di quale energia è fatta la vita, di quanti destini che non ti appartengono, di colpo intrecciano gli stessi fili.
Così siamo tornati alla masseria in quindici, e si sono uniti anche cinque del Burundi e tre di Burkina Faso, con il caporale che è rimasto nel campo e calciava i nostri cassoni vuoti.”
Così incomincia lo sciopero dei braccianti di Nardò, durato 13 giorni, e nella sua dinamica essenziale non c’è nulla di diverso dalle rivolte dei braccianti padani nell’Ottocento o dei cortei interni che spazzolavano i reparti di Mirafiori nel 1969.
In ogni caso, la consapevolezza operaia assume una dimensione progettuale e collettiva. È ancora Cotti che parla: “Oggi si fatica a ragionare in questo modo ma allora no, perché davanti a noi c’erano sempre e solo cose che pensavamo migliori, e quando si parlava di tempo si parlava di futuro.” E, nello spazio vuoto delle Officine, egli sembra avvertire le voci di tutti gli operai “Che parlavano e ridevano. Oppure che facevano i cortei interni o i picchetti dello sciopero del ’68, quello che non finiva mai. Eravamo una comunità straordinaria, sa? Capaci di occupare la fabbrica per contestare le tariffe del cottimo ma anche di partire tutti insieme per l’Irpinia dopo il terremoto o di organizzare in piazza Maggiore la distribuzione ai barboni dei pacchi natalizi che l’azienda mandava, e noi non volevamo.” Il vincolo collettivo è così forte da forzare i confini stessi dell’esistenza: “Siamo morti in tanti, ormai. Curioso, ho detto ‘siamo morti’.”
► Lo sfruttamento è uno ma la qualità del lavoro è multiforme. Curioso destino quello di Lavoro vivo: ragionare sul lavoro in un momento storico in cui il lavoro, almeno nei paesi a capitalismo avanzato, va rarefacendosi o addirittura scomparendo, quando le ultime sopravvivenze del mestiere, la dimensione del lavoro più complessa e coinvolgente sul piano umano, sono sistematicamente cancellate dai processi di produzione materiale e immateriale e quando la qualità non è più quella degli uomini ma quella fatta dalle macchine.
In pochi anni, quel grandioso patrimonio di eccellenza e di alta professionalità manuale, prodotto di secoli di lavoro e fatica, si è inaridito. Nei cantieri, una volta – rievoca il vecchio sindacalista Armando in Giungla d’appalto – le navi si costruivano con la collaborazione tra operai e progettisti e “gli stessi progettisti, gli ingegneri e i tecnici, che avevano gli uffici accanto a dove lavoravamo, venivano a chiederci consiglio”. L’esito è stato una generale dequalificazione del lavoro, la drastica diminuzione degli operai qualificati, l’impossibilità di costruire un percorso di maturazione professionale individuale da parte del lavoratore e la diffusione di una pletora delle cosiddette “nuove professioni”, nella maggior parte dei casi, incerte, precarie, flessibili, umilianti, di infimo contenuto qualitativo e, viceversa, ad altissimo contenuto alienante.
Il lavoratore è spogliato del suo orgoglio professionale, sentimento che rappresenta la percezione della centralità dei rapporti di produzione nella società e al tempo stesso dell’importanza del prorio ruolo sociale.
Questa condizione è ben rappresentata nel racconto Eqquessaè. Non c’è più spazio per quegli operai come il padre dell’autore, emigrato a Wolfsburg dopo il licenziamento dalla Ciba di Milano: “So solo che quando vedeva passare un maggiolino gli brillavano gli occhi, e orgoglioso mi diceva: «quelle le costruisco io!». E in quei momenti mi sembrava di cogliere al contempo, l’assurdità e la bellezza della condizione dell’operaio, che nel lavoro duro, rischioso, alienante, riesce a vedere il proprio riscatto e la propria ragione d’essere, l’orgoglio di sapere che, insieme ai compagni di reparto, con le mani è capace di costruire qualcosa di reale, di materiale, destinato a durare nel tempo. Allora guardavo mio padre e pensavo a un muratore che, con fierezza, fissando un palazzo può esclamare: «questa è opera mia! ».
Io, per volere dei miei («Studia! Studia, tu che puoi, così non finirai per fare un lavoro duro» mi urlavano sempre), ero finito a lavorare in banca, tra numeri, computer e fogli di carta. Cosa stavo costruendo io? Cosa restava a fine giornata, materialmente, del mio lavoro? Qual era il mio maggiolino, da guardare orgoglioso, frutto del sudore della mia fronte?”
In questo modo, si esprime Guerriero, operaio alla manovia di un calzaturificio: “Allora vedi quelle scarpe, e le conoscevi, forse ti erano persino passate per le mani, erano state tue in un momento della giornata del tuo lavoro quando eri protagonista perché le stavi lavorando, le toccavi quelle scarpe, le paasavi a un altro collega (…) Insomma, sono un operaio specializzato, le mie otto ore le faccio tutte, anche gli straordinari se servono, perché i comunisti come me ci tengono che ci sia il lavoro, e sanno che senza lavoro, anche questo che non mi piace, sarebbe ancora peggio (…) che noi conosciamo la produzione, nessun capitalista la conosce meglio di un operaio che ci è capitato dentro…”
Per Cotti, capacità, orgoglio professionale e responsabilità sociale sono inseparabili: “Io al mio lavoro ci tenevo molto (…) quando la sera uscivo dalla fabbrica mi sentivo davvero soddisfatto (…) Le Officine erano una specie di Università artigiana (…) siamo sempre stati i più bravi (…) Ho capito che ce la mettevano tutta perché erano orgogliosi di quello che facevano ed erano certi di avere un compito importante, siccome si fa presto a dire, ma la gente quando viaggiava metteva il sedere, mi scusi la parola che magari lei non può scrivere sul suo giornale, ma insomma è proprio il sedere che metteva sui sedili delle carrozze montate dentro le Officine. Avevamo una bella responsabilità.”
Invece, deve concludere amaramente il protagonista:“Le Officine servivano per produrre soldi e non carrozze.”
Questi sentimenti sono dunque sfruttati spietatamente dalla logica del profitto come conferma l’ineffabile, quanto diffusa, figura del Bevazzi, un cinico padroncino di un’impresa edile in Devo dirti una cosa: “È stato commesso un delitto e chi lo ha commesso… lei lo conosce il signor Bevazzi, vero? È quello che ha sempre detto che non c’è bisogno di protezioni se uno sa far bene il suo mestiere. E lo dice ancora, non in pubblico, certo ma che il casco non serve, serve la testa glielo hanno sentito dire più di una volta, o no?”
Giampiero Rigosi, in Ma scrivere è un lavoro?, affronta o almeno, molto educatamente, sfiora la questione del rifiuto del lavoro a partire dal proprio vissuto giovanile, quando Erminio, il padre di un amico, raccontava una vecchia storia con veri e propri eroi negativi che, come e molto tempo prima dell’Alfonso di Vogliamo tutto, irridevano alle oneste fatiche del lavoro salariato: “Ma perché, a diciott’anni, mi divertivo tanto a sentire questa storia? Perché io e questi miei amici stavamo dalla parte dei fannulloni anziché per i lavoratori che, in quell’officina, si guadagnavano il pane con onestà?
Naturalmente non conosco la risposta che ognuno dei miei amici di allora avrebbe dato a questa domanda, ma posso dire che, nel mio caso, si trattava di una pernacchia alla voce dei miei antenati. Uno sberleffo al loro avvertimento minaccioso, che assomigliava alla voce tonante del Dio della Genesi…” Senza contare poi che: “A quel tempo, per me rifiutare il lavoro faceva parte di un rifiuto più ampio” che investiva l’autoritarismo, le forme di controllo sociale, le istituzioni, lo stato, la famiglia, le regole. Inoltre, è prerogativa dell’uomo “stancarsi di ciò che è costretto a fare per vivere”. Comunque, confinare il rifiuto del lavoro salariato in una forma di ribellismo giovanile e di conflitto generazionale è assai riduttivo, ma forse non sta bene in un libro nato sotto l’egida di un sindacato inserito in una cornice concertativa dire di più, e male, della voglia di lavorare e della necessità di farsi sfruttare.
► Il grande deragliamento. Sta di fatto che anche la strada percorsa dalla ribellione dell’operaio-massa non ha portato allo scardinamento del sistema. La sconfittà è stata di tutta la classe che, dagli anni ’80, giace sul fianco, accartocciata e decomposta come un treno uscito dai binari. In Lavoro vivo non ci sono molte pagine dedicate a questo tragico capitolo né si trova una ricerca delle cause o un abbozzo di spiegazione. C’è un “prima”, una specie di età dell’oro della lotta di classe, e un “dopo”, l’umiliante e dolente realtà attuale, ma cosa sia capitato in mezzo e cosa abbia portato a questa inversione nei rapporti di forza è taciuto, non si sa e non è dato a sapere.
Tuttavia, in alcuni passi dell’antologia i segni delle ferite sono evidenti. Per esempio, in Senza buccia, la figura della madre di Raimondo-Mundeddu: “Ma il tempo l’aveva fatta cinica, come modificata geneticamente: lei era stata di quelle che alla giustizia ci aveva creduto, ma ora sembrava una delle tante che considerano se stessi, la propria sopravvivenza, un motivo sufficiente per fregarsene del prossimo”. Anche il capo cantiere di Raimondo si muove sulla stessa lunghezza d’onda della madre:
“L’hai detto tu: devo pensare alla mia famiglia. È solo per questo”.
“Per questo cosa?”, chiede Raimondo afferrando, finalmente, la busta.
“Per questo che lavoro con questi banditi. E se vuoi che te la dica tutta della tua denuncia se ne fregano, perché qui anche i sindacalisti hanno dei figli”.
Tuttavia, questa rassegnazione non è accettata da Raimondo e dalla sua ragazza Elena: “Lui la segue: «Mi hanno cacciato dal cantiere», le rivela. «Un lavoro che non c’era non si può perdere», constata lei. «Sì», pensa lui, senza nemmeno il bisogno di dirlo veramente.”
Un lavoro che non c’era non si può perdere.
Il ricordo amaro di un’assenza è il racconto che più di altri si addentra nelle pieghe riposte del grande deragliamento. Richy si trova in coma per un incidente sul lavoro e il padre riflette: “…sono stato io, in fondo, a spingerlo verso quel lavoro da moderna schiavitù, sette euro all’ora il giorno dopo una chiamata telefonica, tre dei quali in busta paga e gli altri infilati in un’altra busta, una qualsiasi, bianca come l’assenza di regole, o come il pallore delle nostre facce quando siamo incapaci di essere ribelli persino per l’attimo fugace di un gesto di diniego.” E i compagni di lavoro di Richy, immigrati bulgari e moldavi: “Sta di fatto che nessuno di loro ha mosso un dito, e questo, se mi spoglio dell’abito da padre, posso anche capirlo, visto il clima di ricatto nel quale sono costretti a vivere.” Gli effetti sono ancora più devastanti per la madre Monica che, atea, si rifugia nella preghiera per salvare il figlio. Il protagonista invece vorrebbe reagire altrimenti: “Sento che mi sta tornando la rabbia di un tempo, di quando la parola “militanza” scandiva i ritmi della mia esistenza, non ancora imprigionata da una catena, troppo pesante, di delusioni, con la quale ho legato assieme reazioni e sentimenti”, ma troppe sono state “le maree dirette contro il vecchio istinto da ribelli, dismesso per età, o per il quieto vivere che, prima o poi, il mondo esterno ti impone di accettare.” D’altro canto, di un processo generale, di una rielaborazione collettiva si tratta, poiché quasi tutti “intanto difendono il proprio fortino, pieno di passaggi segreti diretti verso la felicità di chi non vuol saperne di rinunciare a disporre di un riparo, anche se fosse di fortuna.” Anche loro hanno sprecato “gli anni a ricercare la normalità”.
La sconfitta è anche il risultato dell’interruzione del rapporto tra le generazioni. Nonno Cotti non ha raccontato nulla al nipotino perché, confessa: “avevo paura di essere noioso come solo i vecchi sanno essere (…) ho rinunciato a lasciare un segno (…), ho smesso anche di ascoltarlo (…) Ce ne siamo andati ognuno per conto proprio, e adesso siamo così estranei…”
► La città forgiata dalla fabbrica. Il Ponte della Ghisolfa nel 1964 era un “quartiere popolare e operaio che nei ricordi di oggi mi torna in mente come un piccolo paese, dove tutti si conoscono” e la città era spesso immersa nella nebbia. Ed “Era bella la nebbia. E Milano era bella nella nebbia”, quasi fosse una condizione climatica connaturata all’industria e venuta meno con la scomparsa delle stesse fabbriche. Così nella memoria di Eqquessaè. In altri casi, lo stabilimento industriale era di dimensioni colossali e tale da costituire un sistema compiuto e autosufficiente rispetto al tessuto urbano circostante. Lo constata il vecchio Cotti: “Se era grande? Oh sì che era grande, non l’ha mai vista? Dovrebbe farci un salto un giorno, così capirebbe meglio e subito. È grande come una piccola città. Non sto scherzando, quando superavi il cancello sembrava proprio di entrare in una città antica, di quelle con le mura intorno.” Invece, la Triangle, dove si consuma la tragedia che ha dato origine alla ricorrenza dell’8 marzo, ha sede in un palazzo di Manhattan di dieci piani: “…quando il montacarichi mi scaricò al nono piano, il mio, ebbi l’impressione di entrare nella famosa “Torre di Babele”. Erano davvero tante, le ragazze: polacche, russe, irlandesi, tedesche, italiane del sud e anche del nord. Solo a quel piano, cento, duecento operaie. Forse di più. Ognuna con la propria lingua. Ma tutte cucivano bluse e camicie e lavoravano in uno spazio così stretto che, per manovrare le macchine, dovevano sedersi di sbieco.” L’industrializzazione ha forgiato per secoli le città e ha segnato l’ambiente col suo sterco e con le sue mostruosità.
La deindustrializzazione ha continuato a segnare in profondità gli assetti metropolitani e territoriali. A volte porta degrado e desolazione come nelle Officine ferroviarie di Bologna divenute un ricetto, una città abbandonata nella città: “adesso lì dentro ci vivono solo i gatti e gli spacciatori. È diventata una zona pericolosa, ma così pericolosa che che è meglio entrare solo con la polizia, avrà letto che la settimana scorsa una ragazza è stata violentata da un gruppo di balordi.” Altre volte, nella città si riproducono dei suk della disperazione e le stratificazioni di città invisibili come i loro abitanti. Il commissario di Giungla d’appalto si trova davanti ad aspetti sconosciuti di Mestre: “Aveva scoperto, attorno al cantiere e seguendo le piste dei lavoratori immigrati, una città nella città, piena di nuovi abitanti semi invisibili. Erano ovunque, nelle locande da quattro soldi e nei piccoli alberghi come negli appartamenti e nelle stanze subaffittate. Qualcuno dormiva in auto o in ripari di fortuna. Conosceva bene il mondo degli stranieri irregolari, sia quello del crimine che quello die poveri cristi che si arrangiavano. Questo gli era nuovo. Era ben inserito nei processi produttivi e tuttavia restava ai margini della città, oscuro.” E la precarietà del lavoro produce agglomerati altrettanto precari, sordidi, irregolari, vere e proprie bidonville come quella che circonda le masserie di No Cap: “L’uscita era oltre il secondo cortile della masseria, questo era occupato da baracche costruite con lamiere e sacchetti neri per le spazzature. In mezzo alle baracche si alzavano i fumi di alcuni fornelli da campo e c’era un movimento caotico di uomini africani, alcuni dei quali stavano spaccando a pedate delle cassette da frutta.”
► Scrivere stanca.
Rigosi conclude con tono quasi compunto la sua riflessione: “Chiedo scusa se ho offeso qualcuno, elogiando l’ozio in un libro che si propone di parlare di lavoro e di quanto troppo spesso il lavoro costi non solo una grande fatica ma, tristemente, metta a rischio la salute o la vita.” Spiega l’autore in un altro passaggio: “Vengo da famiglie di grandi lavoratori, sia da parte di padre che di madre. Gente che ha lavorato sodo tutta la vita, e che mi ha trasmesso l’idea che facendo gli artisti non si porta a casa il pane (…) Questo retaggio mi è rimasto addosso.” In ogni caso lo stato d’animo di Rigosi non è isolato. Anche Tassinari, nella manifestazione del 26 gennaio 2011 in piazza Maggiore, parlò degli scrittori come di “privilegiati” poiché “lavorano con le parole e non con le presse”. Invece, lo scrivere non è più l’otium degli antichi, è con piena dignità un lavoro. La questione è altra: cosa, perché e per chi si scrive; come ricomporre la separazione fra lavoro manuale e intellettuale, una delle divaricazioni su cui il capitale ha fondato il suo dominio.
Lavoro vivo non esprime, né poteva esprimere, una riflessione organica su questi temi. Tuttavia, riesce a proporre alcuni spunti interessanti. Gianfranco Bettin, per esempio, porta alcune considerazioni sul genere del noir. Dialogano Armando, un vecchio sindacalista di Porto Marghera, e il commissario di polizia che sta indagando sull’omicidio di un immigrato dal Bangladesh:
«Armando posò sul tavolo Uomini che odiano le donne.
“Ahaha… un bel noir…”.
“La gente legge i noir come una volta si leggevano i romanzi rosa, Liala eccetera”, disse Armando. “Illusioni sul mondo”.
“E dove sarebbe l’illusione del noir?”
“Che l’eroe, negativo o positivo, spieghi il mondo”.
Nei noir onesti non ci sono illusioni”.
“Vero”.
“E quindi?”
“Le illusioni stanno negli occhi di chi legge, nero o rosa. E oggi ne sono pieni, gli occhi”.»
Angelo Ferracuti va alla ricerca del senso profondo della scrivere:
“Mi piace leggere, però mi piace di più scrivere, e mi riesce anche di scrivere, cioè mi pare che le parole riesco a metterle bene una dietro l’altra, assumono un senso, hanno una loro forza quelle che mi vengono in testa anche a me che sono un uomo semplice, e non voglio essere niente di più e niente di meno che un uomo semplice, uno che ama leggere, e poi scrivere (…) Le parole sono pietre, le parole sono proiettili, possono entrare nelle carni, ferire. Le parole carnali. Ecco, carnali, mi piace di più.”
Milena Magnani coglie gli aspetti ambivalenti della comunicazione informatica e della rete, mezzi non neutrali ma del colore del cuore di chi li usa e dei rapporti sociali che rappresentano. A volte, sono semplicemente un’occasione per scaricare la coscienza: “Loro [gli amici del medico] scuotevano la testa sconsolati: «È pazzesco, bisogna che segnaliamo la cosa su fcebook, su linkedin, su netlog».
Mi facevano l’elenco di una decina di social network ma si capiva benissimo che, dette quelle parole, avevano fretta di tornare alle proprie vite, dovevano raggiungere un tecnico per aggiustare il cellulare, e avevano da fare chilo metri per ballare la pizzica nelle piazze affollate dell’estate.
Come se la sola intenzione di cliccare un tasto, evidentemente, rendesse più decoroso quel loro scomparire in uno sfondo.”
La connessione muta completamente quando dietro alla rete c’è una realtà di lotta: “Sì quando penso a quello sciopero vedo tutte queste cose ma soprattutto vedo la forza che può avere una protesta quando nasce dal cuore di chi ha dovuto chinare ingiustamente la testa, una forza contagiosa, che dai campi di Nardò deve aver percorso tante strade, deve aver cavalcato gli impulsi elettronici della rete fino a infilarsi in sentieri sotterranei; nelle cantine dei comitati, tra le scritte sui muri dei centri sociali…”
► Del narrare e della lingua.
Ampio è il ricorso da parte degli autori alla narrazione in prima persona e all’adozione di un punto di vista interno alle vicende narrate. A volte, il racconto è singolo, individuale, del protagonista. È il caso di Carlo Lucarelli che alterna il piano temporale del presente all’emergere faticoso di frammenti
di un passato rimosso (“bricioli di ricordi”). Massimo Vaggi si affida alla tecnica di un’intervista in cui il giornalista rimane dietro la linea dell’orizzonte, è invisibile e la sua voce è mancante: se ne sentono gli echi attraverso le parole e le intonazioni di Cotti.
Altre volte, intervengono più narratori come nel racconto di Maria Rosa Cutrufelli che fornisce tre distinti punti di osservazione sulla tragedia della Triangle: la testimonianza diretta dei tre sopravvissuti Caterina, Ada e Sam. Seguendo un’attenta simmetria, Caterina ricorda la sorella Maria; Ada la compaesana Serafina col figlioletto Tonino; Sam tratteggia la figura dei padroni della fabbrica Isaac Harris e Max Blanck. La ricostruzione dei fatti è immaginata in un’intervista che i testimoni rilasciano a un gruppo di studenti universitari effettuata più di cinquant’anni dopo l’incendio. Milena Magnani invece avvicenda il punto di vista tutto sommato esterno del medico e quello interno di Thomas, l’immigrato camerunese che con la sua reazione trascina i braccianti allo sciopero.
C’è in molti racconti il gradito ritorno del dialetto. Il retrogusto è un po’ neorealista ma si tratta solo di apparenza. Vaggi inserisce espressioni dialettali e proverbi bolognesi. Per Giuseppe Ciarallo, il dialetto rappresenta la forma di comunicazione più intima e vibrante. Il figlio studente e il padre operaio dialogano “In dialetto, perché tra di noi parlavamo sempre in dialetto.” La madre e il padre davanti alla lettera di licenziamento: “Piantando i suoi occhi in quelli di mio padre, esclama: «Eqquessaè!» E lui, di rimando, conferma: «Eqquessaè!»
Scoprii poi che dalle mie parti, in Molise, quel termine viene usato in particolari situazioni e che può essere riassunto e tradotto a grandi linee, con la locuzione: «Così stanno le cose»”.
Per Raimondo-Mundeddu, le usanze locali sono segno di distinzione, occasione per recuperare una dimensione umana e dignitosa, modo per distinguersi da quel mondo, a cui la madre appartiene, che ha accettato di scendere a patti e convivere col cinismo e l’ingiustizia. Marcello Fois rimarca questa distanza: “Il fatto è che quando era piccola lei, la mamma di Raimondo, tutti, a scuola, in chiesa, in quartiere, tutti pensavano che il locale fosse una vergogna. C’era lo strascico lungo del ’68 allora e si parlava in italiano, il sardo lo parlavano i peddoni [= vestiti di pelle, e, per estensione, uomini rozzi] appunto. E costumi manco a parlarne e persino i mobili vecchi si erano dati via per le cucine americane di fòrmica.”
L’aspetto della contaminazione linguistica che si crea nell’ambiente dell’immigrazione e sui luoghi di lavoro, aspetto che è al tempo stesso motivo di doppiezza se non di sdoppiamento, è appena sfiorato da Maria Rosa Cutrufelli. Dice Ada: “mi consideravano una yankee. È il mio destino. Sempre divisa in due: yankee per gli italiani, italiana (dago, dicono per insultarci) quando sto fra gli americani veri al cento per cento.” Il termine dago deriva da day goes, lavoratori a giornata, ed è uno dei molti esempi di quelle espressioni denigratorie attraverso le quali si fa evidente un abito mentale xenofobo. Milena Magnani invece si avventura con maggiore coraggio su questa strada. Thomas si esprime attraverso un impasto di gergo (toubab, Litalia,), francese (médicin, solation caporal, argent, permis, travail, vol) e italiano della parlata migrante (provvisa, coraggiato). I tempi mutano. Un tempo erano i braccianti salentini a lottare contro il patruno. Ora sono gli immigrati neri a ribellarsi al caporal soudanais.
Nel complesso, manca nell’antologia la voce dei più giovani che conoscono, e pagano sulla loro pelle, non il lavoro ma i “non lavori” e i “sotto lavori”. Sarà che tutti gli scrittori di Lavoro vivo appartengono alle generazioni precedenti e di conseguenza conoscono una realtà lavorativa diversa e ormai in forte declino, ma nel libro non troviamo nulla dell’esperienza di una Simona Baldazzi, in Figlia di una vestaglia blu; di un Giorgio Falco, in Pausa caffè; di un Francesco Dezio, in Nicola Rubino è entrato in fabbrica; di un Andrea Bajani, in Mi spezzo ma non m’impiego; o di una Michela Murgia del romanzo d’esordio Il mondo deve sapere. Anche quest’assenza dovrebbe essere motivo di riflessione per un sindacato.
27 agosto 2012