Di militanza e violenza, di sconfitta e memoria parla l’ultimo libro di Giovanni De Luna, edito lo scorso ottobre da Feltrinelli. La riflessione dell’autorevole contemporaneista torinese attraversa gli avvenimenti e i nodi del decennio compreso tra l’autunno caldo e i 35 giorni della FIAT nel tentativo di cogliere i motivi profondi di una sconfitta di proporzioni storiche sia dei movimenti, che da quella stagione furono generati, sia delle formazioni politiche della sinistra. Una lettura dunque in parte cronologica e in parte tematica che si basa sulla scelta di dividere gli anni Settanta in due lustri: uno iniziale creativo, innovativo e solare e uno successivo, avvitato su se stesso, dalle tinte fosche e plumbee. La stessa espressione “anni di piombo” ha finito col condizionare negativamente la visione e la rappresentazione di tutta quella fase della storia recente. Invece, per De Luna è necessario riscoprire la complessità e l’intensità di quel passato “che non passa” e che ha finito col lasciare dietro di sé una lunga e dolorosa scia di sangue, divisioni e problemi irrisolti, non ultimi quelli rappresentati dalle “patologie” e dalle “anomalie” che inquinano la democrazia del Belpaese.
Più che un saggio di ampio respiro “Le ragioni di un decennio” rappresenta una riflessione sospesa tra l’indagine storica e il tepore accattivante della testimonianza e va ad alimentare quella piccola fetta di mercato editoriale che, da qualche anno a questa parte, si è arricchita anche di memorie, bilanci politico-esistenziali, narrazioni più o meno autocritiche di partecipanti, a vario titolo e con differente peso, alle passate stagioni della lotta politica. In alcuni casi, questa produzione si muove in un clima rarefatto da day after. Dopo i decenni delle lotte, il conflitto sociale è stato appeso al chiodo e ha lasciato spazio alle pantofole, ai ripensamenti, a confuse cerimonie di espiazione in una sorta di rito di passaggio che non è ancora chiaro quali nuovi territori da esplorare comporterà.
Senza entrare nel merito di una valutazione di natura storiografica, quale contributo porta lo studio di Giovanni De Luna a chi si propone non solo di comprendere gli errori del passato ma anche di ragionare sul piano politico e di riannodare il filo interrotto dell’iniziativa politica e del cambiamento sociale?
Fra le parti più utili dello studio, va segnalata l’analisi della costruzione della memoria degli anni Settanta, un processo di privatizzazione risultato dell’abdicazione della politica nei confronti dei media che hanno forgiato i paradigmi interpretativi degli “anni di piombo”.
Altro aspetto pregevole del libro è rappresentato dalla minuziosa ricostruzione di capitoli della storia di quegli anni che non vanno dimenticati. Per esempio, è importante ricordare, come De Luna sottolinea, che in questo paese, tra il 12 dicembre 1969 al 1984, in ben 11 stragi, morirono 150 persone, 652 rimasero ferite e tutte quante sono ancora oggi senza giustizia, senza nemmeno lo straccio di una “verità processuale” credibile.
Per esempio, è essenziale rileggere i nomi dimenticati dei compagni uccisi dai fascisti o dalla polizia in quel decennio: Cesare Pardini e Giuseppe Pinelli (1969); Saverio Saltarelli (1970); Franco Serantini e Mariano Lupo (1972); Roberto Franceschi (1973); Fabrizio Ceruso e Adelchi Argada (1974); Claudio Varalli, Giannino Zibecchi, Alberto Brasili, Alceste Campanile, Piero Bruno, Rodolfo Boschi, Gennaro Costantino, Jolanda Palladino e Tonino Miccichè (1975); Mario Salvi, Gaetano Amoroso e Luigi Di Rosa (1976); Giorgiana Masi, Walter Rossi, Benedetto Petrone, Francesco Lorusso (1977); Roberto Scialabba, Fausto Tinelli, Lorenzo Iannucci, Peppino Impastato, Claudio Miccoli e Ivo Zini (1978); Ciro Principessa (1979); Valerio Verbano (1980).
Così come non è inutile rammentare che, per esempio, il gup Valentina Forleo nel dicembre 2000 dispose l’archiviazione dell’indagine sulla morte di Fausto e Iaio e che la sentenza assolutoria nei confronti degli imputati delle forze dell’ordine per la morte di Zibecchi in data 29 novembre 1980 recò la firma di Francesco Saverio Borrelli. Non sono solo dettagli che riguardano le carriere di toghe destinate alla fama mediatica. Si tratta di fatti che restituiscono la dimensione reale dei ruoli di classe e delle dinamiche sociali.
Per questo, a quasi trent’anni di distanza, fa un certo effetto prendere atto che, il 10 settembre 1980, la FIAT annunciò 14.469 licenziamenti. Nel solo Piemonte, il gruppo automobilistico dava allora lavoro a oltre 102.000 lavoratori. Quattro anni dopo, ne rimanevano solo 55.398 e “più di trecento operai espulsi dalle fabbriche col meccanismo della cassa integrazione si suicidarono” (p. 132). Appunto, non si tratta solo di freddi numeri: siamo di fronte alle dimensioni gigantesche di uno sconvolgimento degli assetti di classe che spiega molto bene l’aridità dell’attuale deserto.
Purtroppo, “Le ragioni di un decennio” non approfondisce la portata di queste modificazioni strutturali, non parla delle strategie dell’impresa, dei meccanismi del profitto, dei ruoli dello stato, del sindacato e della sinistra storica, tutti aspetti che vengono lasciati sullo sfondo. Questa emarginazione è dovuto in buona parte a una sostanziale rigidità del libro, cioè alla scelta di narrare la storia di quegli anni attraverso l’individuazione di due situazioni esemplari: la Torino della FIAT e l’esperienza di Lotta Continua, di cui De Luna fece parte. La rappresentatività del capoluogo piemontese sarebbe giustificata dal ruolo del modello industriale della fabbrica di Agnelli nel sistema capitalistico italiano. Invece, LC sarebbe il gruppo “in cui (più che in tutti gli altri) precipitarono le percezioni diffuse, quello che abbiamo definito un senso comune che spontaneamente serpeggiava in tutto il movimento” (p. 56). Ancora, LC rappresenterebbe “il contenitore in cui in maniera più significativa precipitarono gli umori, le idee, i comportamenti dei giovani di allora, un luogo di transito, un crocevia in grado di intercettare tutti flussi di quel mondo magmatico e inafferrabile che costituì l’humus di una irripetibile stagione politica” (p. 9).
In ogni caso, Torino non è l’Italia di quegli anni, né si vede come LC da sola - né tanto meno il suo spezzone torinese - possa rappresentare qualcosa di diverso da se stessa e dalla propria esperienza, purtroppo precocemente fallimentare. Infatti, fu il primo dei gruppi a sciogliersi nel novembre del 1976 al termine di una caotica fase di sbando e di dolorosa disgregazione interna. D’altra parte, il libro lascia uno strano retrogusto di dejà-vu, o meglio di già sentito. Si tratta degli echi di una “sintassi” molto simile a quella che dominava lo stile e la ritualità di LC. Certo, non si parla più di rivoluzione, di violenza proletaria, di antifascismo militante, di centralismo democratico, di militanza o di centralità operaia se non sotto l’aspetto di dati documentari. Il lessico è completamente mutato e purgato, ma la sensazione è che i ritmi e i timbri, il carattere perentorio e spigoloso di certe valutazioni siano rimasti nella sostanza sempre quelli di allora. È ben triste ascoltare oggi non tanto perché la rivoluzione sia diventata una caporetto, quanto perché sia stato folle e aberrante anche solo averla immaginata, da parte di coloro i quali, un tempo, con orgogliosa sicurezza, scorrazzavano per le valli della lotta di classe e si ritenevano i più bravi a far rivoluzioni.
Comunque, per quanto LC sia assunta a modello mitopoietico di un’intera fase politica, il saggio riesce ad aggiungere molto poco alla storia di questo gruppo politico. Per esempio, il libro propone un schema interpretativo generale sulle trasformazioni degli stili di militanza (nel PCI: dal modello cospirativo alla crescita di un corpo dei funzionari, fino all’emergere di un “ceto politico duttile e manovriero” di amministratori locali (p. 182); nella nuova sinistra: dalla critica radicale e situazionista alla burocratizzazione dei gruppi, dal loro dissolvimento alla trasformazione dei loro componenti in “cittadini”), ma ben si guarda dall’analizzare in concreto la cultura dell’organizzazione, i destini sociali e gli approdi finali, in alcuni casi impietosi, degli ex militanti. Sarebbe vano cercare anche solo sbrigativi accenni ai licenziamenti e all’epurazione violenta e sistematica delle avanguardie operaie, allo smantellamento degli organismi di democrazia diretta e unitari in fabbrica e sul territorio, all’assimilazione di ogni forma di opposizione politica al terrorismo e al ruolo che il PCI in tutto questo ebbe, all’impatto devastante dell’eroina, improvvisamente e ovunque apparsa sul mercato, su intere generazioni di compagni.
Anche la parte dedicata alla violenza è ampiamente lacunosa. Non entra nel merito né delle dinamiche della lotta armata, né del servizio d’ordine di LC e neanche del popoloso arcipelago golpista e neofascista che non è certo andato in pensione con l’autodissoluzione dei movimenti e con la liquefazione degli apparati organizzativi della sinistra. Di nessuna utilità sono categorie come l’ “inafferrabilità” o l’ “irripetibilità” del passato oppure gli “arcana imperii”, cioè i centri di potere occulti dello stato, che Bobbio riteneva in qualche modo e in qualche misura inevitabili anche in un sistema democratico. Qual è la dose massima consentita e la soglia di tollerabilità degli “arcana” in una democrazia? E se questa patologia si cronicizza e diventa un fenomeno ampio e di lunga durata, non diventa forse elemento strutturale del potere? Non sarebbe più semplice dire che gli “arcana” sono parte integrante della natura di classe di questo stato? Allo stesso modo, lasciano perplessi alcuni giudizi sulle dimensioni della partecipazione politica negli anni Settanta. La campagna sulla strage di piazza Fontana avrebbe avuto come risultato il rafforzamento della “fiducia nella dimensione ‘virtuosa’ di una mobilitazione politica in grado di allargare gli spazi di verità e di giustizia in questo paese” (p. 40), mentre, d’altra parte, l’incalzare delle stragi avrebbe finito con l’alimentare “la sensazione che a contare in Italia fosse allora solo l’effettivo esercizio dell’autorità tramite la violenza, rendendo irrilevante qualunque aspetto etico nell’azione politica” (p. 50) e, in definitiva, col provocare un generale riflusso nel privato. Forse, più semplicemente, la posta in gioco in quei frangenti fu quella nuda e cruda dei rapporti di forza nei posti di lavoro, nella società e nelle istituzioni.
In definitiva, il libro si presenta come un’occasione mancata. Proprio quella sconfitta, che si propone di indagare, ha prodotto in questi decenni un’ideologia ormai sedimentata e coriacea e che non è fatta soltanto di riferimenti all’onnipotenza del mercato, ma anche, per esempio, dall’idea che il mercato è il migliore dei mondi possibili che non può essere né combattuto né vinto. “Le ragioni di un decennio” rimane nel recinto di questa cultura della sconfitta. Se è vero che in questi anni c’è stato un processo avvilente di privatizzazione della memoria, la strada per riscoprire le ragioni di un decennio rimane quella della riappropriazione da parte della politica del proprio passato e della ricostruzione di una cultura politica di opposizione e di alternativa.
[30 dicembre 2009]