Il contrario di «razzismo» non è «buonismo»: è «internazionalismo» ed «egualitarismo», l’antica «égalité», il grido di rivolta di tutte le rivoluzioni. La prima battaglia internazionalista oggi si combatte con la ragione e la conoscenza contro la potenza della propaganda razzista che ha invaso le coscienze e intossicato le pance di milioni di sfruttati trasformandoli nei peggiori nemici di se stessi.
Uno dei cardini dell’ideologia razzista italiana è l’idea, del tutto falsa, di una presunta invasione straniera che starebbe distruggendo il paese. Non c’è nessuna invasione, anzi sono proprio gli italiani che, riprendendo le strade già battute dai loro antenati fino a mezzo secolo fa, stanno “invadendo” altri paesi. E guarda caso, dove arrivano, trovano lo stesso razzismo che i loro connazionali riservano a uomini, donne e bambini che oltrepassano i confini italiani.
Dunque gli immigrati che arrivano in Italia sono di meno, ormai molti di meno degli italiani che emigrano. Gli ultimi dati elaborati dall’Istat e relativi al 2016 contano 124 mila italiani che si sono trasferiti all’estero in deciso aumento rispetto ai 94 mila di tre anni prima. La statistica si basa sulle iscrizioni all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire). Tuttavia, la gran parte dei nostri emigranti non si iscrive all’Aire perché la registrazione comporta la perdita della copertura sanitaria in Italia e questo non è conveniente. I residenti all’estero censiti dall’Aire sono dunque soltanto una parte degli espatriati, cioè quelli che hanno trovato una sistemazione stabile e non pensano di ritornare a casa nel breve o nel medio periodo. Per questi motivi e sulla base delle linee di tendenza, il Centro studi Idos di Roma stima che gli espatri effettivi nell’anno 2016 siano più del doppio cioè 285 mila. Nell’anno successivo 2017, sono entrati in Italia 119.369 migranti. I dati non sono omogenei, ma il confronto indica comunque un’inversione di tendenza: il saldo tra immigrati ed emigranti è negativo, rispetto ai dati Istat, di – 5.000 e, rispetto alle stime Idos, di – 166 mila unità. Dunque, non c’è nessuna invasione, anzi siamo davanti a una “evasione”!
Ancora più interessante è capire che cosa facciano all’estero cinque milioni (!) di italiani iscritti all’Aire, cifra pressoché pari al numero degli stranieri residenti in Italia nel 2017 (!). Infatti, di loro non si parla mai se non sotto l’etichetta, anche questa falsa e di comodo, della cosiddetta «fuga dei cervelli». L’ex ministro Giuliano Poletti, secondo la vulgata razzista un pericoloso buonista, dichiarò con fastidio nel dicembre 2016 che «alcuni è meglio non averli tra i piedi». Pare invece che il problema non sia tanto di quelli che se ne vanno dall’Italia, bensì da quelli che purtroppo ci restano. E per nostra somma sventura vanno pure al governo.
Comunque sia, solo una minima parte dei residenti all’estero può essere inquadrata nella categoria tutta giornalistica della fuga dei cervelli. Né potrebbe essere altrimenti in un paese che non investe in istruzione e ricerca, che ha devastato scuola e università e vanta la più bassa quota di laureati tra i paesi sviluppati. In questi anni, Londra è diventata, dopo Roma e Milano, la terza “città italiana” per numero di abitanti, ma la stragrande maggioranza di loro non sono affatto cervelli in fuga, anzi solo il 25% degli italiani residenti all’estero parte con una laurea in tasca e, di questo quarto, la maggior parte svolge lavori tutt’altro che intellettuali. I nostri emigranti sono invece braccia in fuga dalla disoccupazione, sono umili lavoratori, come in passato, i più dequalificati e sfruttati sul mercato del lavoro. Altro che menti eccelse e futuri premi nobel che generosamente il (tanto vituperato) sistema scolastico regala agli altri paesi! La favoletta dei cervelli in fuga viene raccontata per addolcire questa cruda realtà, per evitare di parlarne e, soprattutto, per coprire l’inerzia del potere.
Gli italiani residenti all’estero passano attraverso le forche caudine delle agenzie di lavoro interinale e dei job center, sono working poor, poveracci che lavorano nella gastronomia e ristorazione, nei call center e nei servizi, nella galassia dei mini job, sono forza lavoro a basso costo, ai minimi salariali o con contratti a ore, flessibile e ricattabile. Provengono in buona parte (sorpresa!) dalla Lombardia e dal Veneto, travolti dalle trasformazioni del mercato del lavoro, dal crollo dei distretti industriali e di quel modello del nord-est che ci ha lasciato in eredità debiti, crac fallimentari, un enorme buco nel bilancio dello stato per evasione fiscale e contributiva, senza contare la devastazione senza precedenti dell’ambiente e delle coscienze.
Nell’Unione europea, l’Italia occupa il quarto posto nella classifica degli emigranti residenti all’estero dopo turchi, marocchini e rumeni, tallonata da vicino dai polacchi. Insomma, nella divisione internazionale del lavoro, gli italiani all’estero sono come gli africani in Italia, gli ultimi, i meno pagati e i più esposti al razzismo, al disprezzo xenofobo, alle espulsioni e alle ritorsioni dei governi locali. Basti pensare ai lavoratori frontalieri in Svizzera che sono da anni il bersaglio principale del razzismo della Lega ticinese, a cui è affratellata quella italiana, e dei partiti di destra.
È evidente che gli sbarchi non c’entrano proprio niente con la condizione penosa dei nostri emigranti. Le cause sono da ricercare nei nuovi meccanismi di accumulazione del profitto e nelle trasformazioni economiche e sociali portate dalla globalizzazione e dalla tecnologia.
Ebbene, cosa hanno fatto i nostri governi? Proprio nulla e non abbiamo nemmeno la consolazione di spedirli all’estero e iscriverli all’Aire. Chi vorrebbe mai un Berlusconi, un Renzi, un Salvini o un Di Maio? Nemmeno la Libia!