« I Balcani sono la polveriera d’Europa, ma restano anche il barometro di quello che è l’Europa… Resto convinto che ora che i nazionalisti hanno portato tutti i popoli alla rovina, toccherà a noi salvare il salvabile »
di Marco Travaglini
Parole nette e chiare, tratte da uno dei colloqui di Predrag Matvejević con il giornalista Tommaso Di Francesco, pubblicati in Breviario Jugoslavo da Manifestolibri. Scrittore e accademico, nato a Mostar da padre russo di Odessa e da madre croata, Matvejević amava definirsi jugoslavo. Intellettuale finissimo dalla scrittura chiara e potente, ha insegnato letteratura francese all’Università di Zagabria, letterature comparate alla Sorbona di Parigi ed è stato ordinario di slavistica all’Università la Sapienza di Roma e al Collège de France. Era una delle menti più lucide e appassionate, europeo dei Balcani fino al midollo. Il destino terribile della sua Jugoslavia, dissoltasi nel sangue dei conflitti dell’ultima “decade malefica” del ‘900. era probabilmente il dolore più grande che avvertiva la sua coscienza. E non fece mai nulla per nasconderlo. In una intervista diceva, tra le altre cose «la Jugoslavia semplicemente non doveva esistere più, non contava più. E perché non contava? Per loro ( Europa e Occidente, ndr) era stato “solo” un paese non allineato, che poteva rappresentare un equilibrio che conveniva agli uni e agli altri. Troppo al di sopra delle parti. Così questo paese tampone, questo mondo-tampone è stato azzerato nella percezione dell’Europa occidentale. Eppure finché esistevano questi paesi non allineati non esisteva nei paesi arabi il fondamentalismo feroce, non esistevano nell’ex Jugoslavia i nazionalismi micidiali. Era un mondo che veniva dalla subalternità al colonialismo, compresa la ex Jugoslavia sottoposta all’Austria come una parte dell’Italia nel corso della sua storia. Erano paesi che avevano un’esperienza storica comune, aspiravano ad un socialismo diverso. Facevano insieme l’equilibrio del mondo. Finito il non allineamento la Jugoslavia non serviva più. Lasciamola ai suoi demoni, devono aver pensato in Europa e negli Usa, ai demoni del peggior nazionalismo. E’ quello che è stato fatto». Un “J’Accuse” lucido, duro. In Breviario Jugoslavo i pensieri di Matvejevic sul destino e i drammi del suo Paese vengono ripercorsi attraverso il lungo rapporto che lo scrittore, autore del fondamentale Breviario mediterraneo, ha avuto con il manifesto, quotidiano del quale Tommaso Di Francesco è condirettore.
Dall’incontro personale con Rossana Rossanda, ai suoi contributi diretti sul giornale, alle tante interviste in occasione della pubblicazione dei suoi preziosi testi, tra cui Tra asilo ed esilio (1998), Il Mediterraneo e l’Europa (1999), Pane nostro (2010). Fino ai molti colloqui sui difficili momenti della crisi che si è consumata nei Balcani: dalla beatificazione del cardinale Stepinac alla proclamazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo nel febbraio 2008, all’arresto di Milosevic e poi di Karadzic, all’incredibile assoluzione del criminale croato Ante Gotovina, alla piena del Danubio dell’aprile 2006. Un libro piccolo nel formato ma grande nei contenuti e nelle riflessioni che propone. Si legge d’un fiato ma poi obbliga alla rilettura, al ripensamento di tante e tali vicende che – come molta parte della storia balcanica – parlano non tanto a quei lembi di terra ma all’intera Europa di oggi. A patto che non si rimanga sordi ai moniti e ciechi di fronte alla realtà. Quando conobbi Matvejević parlammo a lungo di Mostar, dell’Erzegovina, della storia della città del ponte che unisce le due rive della Neretva. E di quanto era cambiata, delle speranze che non erano morte, delle possibilità che rimanevano per un riscatto della convivenza sul delirio delle divisioni imposte da chi disprezzava la vita badando solo al potere.
Era in una certa misura ottimista, un ottimismo della volontà di un uomo che vedeva nell’Europa una madre che avrebbe ridato ai suoi figli rissosi la giusta collocazione all’interno della grande famiglia del continente. L’Europa, come qualcuno ha scritto con acume « non era solo il futuro, ma la costruzione politica che avrebbe risolto i problemi del passato. E lui insisteva sul fatto che il Mediterraneo ed i suoi simboli, come appunto il pane, potevano essere il punto di partenza per una nuova cultura dell’uomo veramente europeo ». E immaginava un’ Europa ben diversa da quella che erige muri, srotola fili spinati, rifiuta l’altro senza pensare, egoisticamente, che in fondo è solo l’immagine di se stessa con più disperazione, fame e paura.