Al peggio non c’è limite. La conferma viene dai ritardi e dal modo farraginoso e caotico con cui il ministero dell’Istruzione di viale Trastevere ha gestito l’attuale emergenza sanitaria. La scuola da decenni è stata messa ai margini dalla politica, privata di risorse indispensabili, asfissiata dalla burocrazia, mal governata da una pletora di funzionari e di ministri accomunati da grigiore, arroganza e incompetenza, per non dire peggio. Su questa deriva si è abbattuto l’uragano del corona virus che, dallo scorso mese di febbraio, ha portato alla chiusura delle scuole e, di fatto, ha posto fine alla loro attività educativa. Questa è la realtà anche se il ministro e i mass media dicono che tutto va bene perché c’è la… “didattica a distanza”. Anzi, qualcuno la ritiene addirittura migliore del “vecchio” modo di imparare, ormai destinato al sacrificio sull’altare dell’innovazione a ogni costo, e la invoca come la scuola di non si sa bene quale futuro, forse marinettiano e futurista.
In realtà, la didattica a distanza è stata il solo strumento disponibile in una situazione straordinaria e, se una “distanza”, abissale, si è creata, è proprio tra questo metodo e la scuola viva e reale. La didattica a distanza si basa sull’impiego di macchine digitali, programmi informatici, connessioni e reti di telecomunicazione. Gli insegnanti possono mandare agli allievi materiali digitali, collegarsi tra di loro e con gli studenti attraverso monitor e microfoni, spedire messaggi, tenere video lezioni, video interrogazioni, video riunioni ecc. In tutto questo, manca la relazione diretta tra le persone, relazione che è l’aspetto fondamentale e irrinunciabile di qualsiasi rapporto umano di crescita sia educativo sia interpersonale. Sul monitor, non ci sono esseri umani ma video persone. In altre parole, la scuola a distanza è quanto di più lontano possiamo immaginare dal diritto allo studio tutelato dalla Carta costituzionale.
Il ministro dice che l’Italia ha dimostrato in questi mesi di essere un paese avanzato nell’utilizzo delle risorse digitali. Anche questa è una ridicolaggine. Nessuno è in grado di dire con precisione quante famiglie non possono permettersi un computer o uno smart idoneo o non lo sanno usare o non dispongono nella loro zona di una connessione adeguata con la rete, ma sicuramente sono centinaia di migliaia. Mancano le infrastrutture e manca un’alfabetizzazione informatica che consenta di fare qualcosa di più utile e intelligente di navigare tra i siti porno o di scaricare le proprie miserabili frustrazioni sui social.
Certamente, la didattica a distanza ha riportato alla luce quella che è la caratteristica di fondo della scuola e della società di cui essa è espressione: la natura di classe. Così qualcuno con sorpresa ha scoperto che esistono famiglie di poveri, disoccupati, precari e proletari; che l’abbandono scolastico, salito alle stelle in questi mesi, è un’autentica ferita che colpisce le fasce più deboli; che bambini, ragazzi e giovani sono le prime vittime di una crisi che si trascina da più di un decennio e che è stata esasperata dalla pandemia; che il risultato di anni di lavoro sugli studenti più fragili o disabili spesso si sono vanificati nello spazio di qualche settimana. Siamo al paradosso: quello che queste persone per anni non hanno voluto vedere con i loro occhi, lo scoprono adesso attraverso i monitor e i display! Il dato di fatto è che la didattica a distanza non ha cambiato questo quadro drammatico, anzi, lo ha aggravato ed esacerbato approfondendo le diseguaglianze sociali. Ma questo il ministro non lo dice.
Gli effetti della didattica a distanza ricadono pesantemente anche sui lavoratori della scuola dal personale non docente agli insegnanti, al precariato. La composizione del cosiddetto corpo docente è mutata in questi anni e si è ulteriormente frammentata. Di fatto, intere generazioni di prof, che avevano vissuto il periodo delle lotte operaie e studentesche e che erano coscienti del carattere classista della scuola, sono ormai usciti dall’istituzione. I ricambi, inutile nasconderlo, non hanno queste sensibilità, ma ogni considerazione andrebbe rimandata a un’analisi puntuale che la sinistra dovrebbe riprendere a elaborare. Intanto, la didattica a distanza si è dimostrata assai poco smart e ha cambiato in peggio le condizioni di lavoro. Per esempio, non esiste più uno spazio pubblico chiaro, definito e distinto, rappresentato dall’aula e dall’edificio scolastico. La cosiddetta “dad” si fa nelle proprie case con propri strumenti privati “di produzione”, a proprie spese. In secondo luogo, non esiste più la possibilità di separare l’ambito lavorativo da quello privato. I carichi di lavoro sono aumentati e gli orari di lavoro risultano stravolti, coi contorni labili e senza limiti prestabiliti. In ogni momento può arrivare una mail, una telefonata, una chiamata. La presenza dell’universo lavorativo con tutto il suo carico di responsabilità, di incombenze e di alienazione è, in pratica, costante, come se un operaio avesse per tutto il giorno in casa al suo fianco la macchina operatrice su cui lavora. Tutto questo, si è materializzato in una crescente burocratizzazione, in un confuso andirivieni di ordinanze e circolari, scartafacci digitali e dichiarazioni, di PAI e di PIA, di DaD e di DiP, di POF e di PTOF, di PdP e di PEI, snort! (nella profusione delle sigle questi governi neoliberisti sono riusciti a doppiare la burocrazia fascista!) e nell’accentuazione del ruolo autoritativo dei dirigenti e dei loro cerchi magici.
Il display ha il difetto capitale di qualsiasi immagine: nessuno può sapere cosa ci sia al di là dei suoi contorni. Per uno studente, basta, banalmente, mettere un libro o degli appunti fuori dalla portata della web camera e condurre una discreta video interrogazione: è il principio del “gobbo” televisivo che rende tanti perfetti ignoranti esperti di materie di cui non hanno mai sentito parlare. Ma lo strumento informatico è anche l’occhio del grande fratello, il controllo continuo sulle operazioni compiute e sul lavoro svolto momento per momento. Al confronto, le telecamere in classe sono un gingillo da dilettanti con buona pace della privacy.
Questa sorta di scuola radio elettra di Torino (che pure, in un altro momento storico, ebbe le sue benemerenze) in realtà aumentata ha aperto in anticipo uno spazio di mercato su cui l’impresa digitale si è subito fiondata. Dopo l’ubriacatura di alcuni anni fa, presto smaltita, si ritorna a parlare di didattica virtuale e di prolungamento della “DaD” anche dopo la riapertura delle scuole, magari nella prospettiva di un futuro innovativo di macchine per apprendere e di pochi insegnanti superstiti ridotti a loro mediocri manovratori. Che bel risparmio sarebbe per questo stato italiano così solidale, egualitario e democratico! E che bei profitti ci sarebbero per l’impresa didattica digitale! E quanti spazi nuovi si aprirebbero alla privatizzazione e allo smantellamento del costoso e scomodo diritto costituzionale all’istruzione.
Intanto, in questi mesi, lo spietato mercato capitalistico ha emesso di nuovo la sua sentenza sulle scuole private che sono allo sfascio. Molti anni fa, a quasi un secolo dall’unità italiana, un ministro di “sinistra” tolse l’aggettivo “pubblica” dal ministero dell’Istruzione in nome della libertà di mercato. In nome della libertà, per vent’anni, sono stati tolti soldi alla scuola pubblica per riversarli su quella privata che, oggi, in perfetto stile Fiat, non può far altro che continuare a battere cassa con maggiore veemenza.
Nel frattempo, al ministero le meningi fumano, è in corso un colossale brainstorming sulle soluzioni da adottare per l’avvenire e qualcuno, di fronte alla necessità di assumere nuovi lavoratori per fronteggiare l’eccezionalità del momento, ha iniziato a utilizzare l’espressione “surrogati” di insegnanti. D’altra parte, che cosa pretendere per studenti ridotti, anche loro, a surrogati? Tuttavia, l’impressione è che, al di là del Tevere, più di un “surrogato”, e da parecchi anni, già circoli liberamente coi nefasti effetti che sono sotto gli occhi di chiunque voglia vedere.