Cinquant’anni fa, il 18 giugno 1971, moriva il senatore Francesco Moranino, il commissario politico della 12a divisione d’assalto Garibaldi “Piero Pajetta, Nedo”. All’indomani, il feretro fu trasportato dalla casa di Grugliasco, dove il comandante Gemisto stava trascorrendo un periodo di convalescenza, alla camera ardente allestita a Vercelli dalla Federazione comunista. Il 20 giugno, si svolse la cerimonia funebre a Tollegno, dove Moranino era nato il 16 febbraio 1920. Furono giorni di intensa commozione e di corale partecipazione popolare, conferma e sigillo di quel forte legame che aveva sempre unito Moranino alle genti del Biellese e del Vercellese e che non si era mai incrinato, nemmeno di fronte alla vile persecuzione che egli aveva subito durante gli anni della guerra fredda e dello strapotere democristiano.
Deputato, il più giovane, dell’Assemblea costituente, sottosegretario di stato alla Difesa nel terzo governo De Gasperi, parlamentare dal 1948 al 1958, Moranino, per lo straordinario valore simbolico e il prestigio acquisiti durante la lotta partigiana, si trovò al centro del più rumoroso procedimento giudiziario relativo ad azioni di guerra avvenute durante la Resistenza. Contro di lui, per la prima e unica volta fino al 1976, quella Camera, che contava tra i suoi membri anche alcuni dei più squallidi rottami di Salò, quella stessa Camera che aveva assicurato l’impunità ai criminali di guerra italiani e che, dall’altra parte, quasi nulla aveva fatto per rendere giustizia alle vittime italiane delle stragi nazifasciste, votò l’autorizzazione all’arresto. Espatriato in Cecoslovacchia, fu condannato in contumacia prima all’ergastolo e poi a una pena detentiva di dieci anni. Rientrato in Italia in seguito al decreto del Presidente della Repubblica 4 giugno 1966, n. 332, fu subito eletto senatore nel 1968.
A oltre settant’anni dagli avvenimenti, appaiono sempre più evidenti gli obiettivi di fondo del successivo “processo Moranino”. Da una parte, segnò l’escalation di una violenta campagna di rilettura e di falsificazione della storia repubblicana, di cui oggi il neofascismo raccoglie velenosi frutti. Dall’altra parte, mise a nudo il prezzo politico pagato dal principale partito di regime per ottenere l’appoggio delle destre estreme, cioè il loro sdoganamento e l’accesso al palazzo, perfezionati poi durante l’era Berlusconi. Dall’altra ancora, conferma la miseria dell’ideologia conservatrice italiana costretta a nascondere il suo vuoto ideale, i fallimenti e i pesanti costi sociali delle sue politiche con la criminalizzazione dell’opposizione politica e il più becero anticomunismo.
Moranino non fu solo. Furono migliaia, i partigiani, decine di migliaia, gli operai e i contadini, che nel dopoguerra assaggiarono il sapore amaro delle cariche della celere di Scelba, dei licenziamenti politici, dei reparti confino, delle denunce, dei processi, delle galere repubblicane, dell’espatrio (una volta, si chiamava esilio), dell’emarginazione, delle vendette e del fango. Non era questa – l’Italia della povertà crescente, dell’ingiustizia sociale, dei lavoratori che vengono assassinati durante la lotta oppure che muoiono per la fatica – l’Italia per la quale avevano combattuto. Accanto all’enorme debito pubblico, questo paese ha un debito ben più schiacciante: quello morale nei confronti di tutte queste persone.