Se ci spostiamo in California, l’occidente è la Cina che, da un punto di vista economico e politico, gode di ottima salute, almeno stando ai parametri finanziari e geopolitici correnti. E se andiamo in Giappone, l’oriente è rappresentato dagli Stati Uniti che, pare, non godano oggi della stessa vivacità del suo principale competitore asiatico. Eppure, il Giappone, che – non c’è dubbio – si trova a est dell’Europa, dagli europei, è compreso nell’occidente. Del resto, nel Sudafrica dell’apartheid, i figli del sol levante erano considerati dei bianchi, mentre, a est, dagli yankee, erano disprezzati come «musi gialli». Invece, nel vecchio continente, non gode di fiducia l’area compresa tra i Balcani e gli Urali, di cui, infatti, si parla, con malcelato e vetusto sospetto di barbarie, di Europa, sì, ma… orientale.
E si potrebbe continuare a lungo proprio perché “occidente” e “oriente”, così come “nord” e “sud”, dipendono semplicemente da dove, malauguratamente o fortunatamente, ti trovi. Sono parole dai confini incerti e molto, molto relativi, che, nella tanto decantata epoca della morte delle ideologie, cioè della mancanza di idee, vengono agitate al vento appunto come logori e bisunti stracci ideologici. Purtroppo, la parola occidente, come gli occidentali la intendono, è legata ad alcune delle pagine più buie della storia dell’umanità. Per esempio, quelle del colonialismo e del neocolonialismo, durante cui, in nome della superiore civiltà occidentale, si giustificarono e si giustificano crimini, genocidi e colossali rapine. La stessa idea del tramonto dell’occidente, espressione resa celebre tra 1918 e 1922 dal libro del filosofo Oswald Spengler, fu adottata dal nazismo e, oggi, la “fortezza Europa”, così come il suprematismo bianco o l’islamfobia, la fanno da padroni nelle farneticazioni di frange neonaziste, e non solo, da una parte all’altra dell’Atlantico.
In questi giorni, le nostre orecchie sono oppresse da uno scomposto pianto greco, le cui lacrime esondano dai mass media e tracimano dalla rete, sulla triste sorte dell’Afghanistan e sul crollo di un occidente ormai alla fine della decadenza, che, inetto, «guarda passare i grandi Barbari bianchi», nel nostro caso, i talebani. Joe Biden, che, pare, durante l’amministrazione Obama, fosse mandato a rappresentare la Casa bianca durante i funerali più importanti, viene chiamato in causa come gran cerimoniere di queste nuove esequie. In questo sgangherato coro di prefiche mediatiche e digitali non mancano nemmeno saputi e anziani filosofi, “comunisti” in gioventù, o giù di lì. Saranno stati colpiti dalla caduta di qualche pilastro. Tutti gli sforzi convergono nel dimostrare che i talebani non sono occidentali. Che siano stati una creatura alimentata e vezzeggiata dai famosi alleati occidentali per fronteggiare la presenza sovietica in quell’area, non è detto. Così come qualcuno si affanna a dimostrare che, se è vero che le armi e la tecnologia che gli studenti dell’islam usano sono occidentali, è pur vero che la loro cultura non è quella occidentale e questo li rende proprio pericolosi. E anche questa, raffazzonata alla meglio, è idea del vecchio Oswald. Nani e ballerine del teatrino della politica italiana giurano che con i terroristi non si dialogherà, né si tratterà. Mai. Più o meno come lo stato italiano non ha mai e poi mai trattato con la mafia. E poi uno stato che non possiede una politica estera non può che restare muto.
Può crollare ciò che non esiste se non come spaventapasseri ideologico? Evidentemente, no. In realtà, quello che sta scricchiolando in maniera sempre più preoccupante (per loro) altro non è che il modello otto-novecentesco di capitalismo e di imperialismo. Occidente e oriente non c’entrano. Sono solo espressioni geografiche, avrebbe detto von Metternich. E le lacrime di coccodrillo versate per il povero Afghanistan servono solo a coprire il rumore di questo continuo cigolare. Qualcuno dirà: ancora con questo vecchiume marxista e comunista? Già, perché lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la voracità del profitto capitalista, il cinismo imperialista, di cui il «disastro umanitario» afghano è l’ultimo prodotto, invece sono una fresca novità?