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LA COOP NON SEI TU? MA LO SAPEVAMO GIÀ / Reprint

Mario Frau, La Coop non sei tu. La mutazione genetica delle Coop: dal solidarismo alle scalate bancarie, Editori Riuniti, 2010, pp. 492

Il libro di Mario Frau documenta in modo dettagliato la degenerazione del sistema cooperativo italiano e, in particolare, della cooperazione di consumo “rossa” piemontese che ne rappresenta una parte di assoluto rilievo. Lotte di potere, nepotismo, incompetenza, lottizzazioni di corrente e favori di partito; burocratismo e stipendi dirigenziali d’oro; privilegi fiscali, speculazioni finanziarie e scalate bancarie; politiche di desindacalizzazione e precarizzazione dei lavoratori; emarginazione della base sociale e mancanza di democrazia; filosofie aziendali, politiche dei prezzi e marketing sociali in tutto e per tutto uguali a quelli praticati dai grandi gruppi capitalistici come Esselunga, Bennet e Carrefour: ben poco manca al circostanziato atto di accusa dell’ex manager Coop. In più, il lettore novarese ritroverà alcune vecchie conoscenze del calibro di Malerba, Leone, Merusi, Pagani, Correnti e Gillone e avrà la possibilità di effettuare un viaggio molto interessante nel mondo della cooperazione locale da Nibbiola a Galliate, da Borgomanero a San Martino di Novara. Tuttavia, di tutti i problemi posti sul tappeto, quello della condizione dei lavoratori delle cooperative, che in Italia hanno ormai ampiamente superato il milione, appare come il più drammatico e urgente.

Lascia un vuoto nello stomaco il libro di Frau; e una nausea; e quel senso di impotenza che si prova davanti all’inarrestabile degrado della sinistra storica. Non che contenga grandi novità. In definitiva, l’autore, ex funzionario del PCI ed ex manager del sistema Coop, non fa altro che aggiungere i dettagli di una tragedia: quella del passaggio della sinistra da forza già zoppicante “di lotta e di governo” a “holding di governo e di mercato”. Che alla Coop di rosso fosse rimasto più che altro qualche schizzetto di colore nel logo, i compagni ne avevano amarissima consapevolezza. Che la Coop fosse ridotta a un’impresa come le altre, soprattutto i pensionati, i precari, i disoccupati e i cassintegrati, cioè la quota più debole dei consumatori se n’era accorta a proprie… spese. L’impatto del discorso di Frau sta dunque nel mettere insieme e allineare una notevole quantità di fatti, dati e documenti con un effetto molto diverso dal considerarli man mano che accadono attraverso la lente deformante del tempo che scorre.
Col proposito di dare solidità e autorevolezza al ragionamento, l’autore parte dai pionieri di Rochdale, i mitici padri del movimento cooperativo, senza però far cenno al nodo teorico che la cooperazione pone al movimento operaio europeo: l’illusione di modificare il mercato non a partire dal cuore della produzione, cioè dalla classe operaia, ma dall’apparato circolatorio della distribuzione commerciale, cioè dal lavoratore inteso come un indistinto consumatore. Allora, dobbiamo chiederci: cosa il movimento cooperativo di consumo ha cambiato degli annosi squilibri dei prezzi e del sistema distributivo italiano? Alla fine chi ha vinto? Sono mutate le imprese commerciali o la Coop si è convertita ai loro metodi? Le desolanti risposte confermano che cambiare il mercato a partire dalla sfera del consumo è appunto una pia, e dolorosissima, illusione.
Se la cooperazione e il mutualismo hanno avuto funzioni positive ed eroiche, sono state quelle di attenuare le condizioni di grave disagio e povertà dei ceti subalterni e di affiancarne le lotte. Ma questa storia, durata dalla metà dell’800 fino al boom economico del dopoguerra, Frau non la racconta. Il suo non è un trattato storico e pertanto egli si concentra sulle vicende cooperative degli ultimi trent’anni con particolare riguardo a Torino e a Novara, le due distinte centrali della cooperazione piemontese. Tratteggia il passaggio dagli enti sopravvissuti al fascismo (la gloriosa ACT, le cooperative di Omegna e Verbania, la vecchia CPL di Galliate) alle moderne cooperative regionali: nel 1967, l’Unicoop, dal 1970, Unicoop Piemonte e Valle d’Aosta; nel 1973, la Cooperativa Piemonte; nel 1974, la Coop Piemonte; nel 1985 l’Ipercoop, che a bizzarro dispetto del nome è invece una… SpA; nel 1989, l’unificazione di tutta la cooperazione piemontese nel colossale e ingombrante abbraccio di Novacoop, di cui è necessario apprestare ben due sedi centrali a Galliate e Leinì. Meglio e di più di una multinazionale.
La fine del sistema sovietico e tangentopoli segnano una rottura epocale nella storia della cooperazione. Prima di tutto, crollano i partiti storici della sinistra che tradizionalmente fornivano i dirigenti di Novacoop (PCI, PSI e in misura simbolica il PRI e la CISL). Come gli USA rimasti di colpo unica superpotenza, le correnti del PDS, gonfiate dai molti orfani socialisti, si trovano da sole a scorrazzare senza freni in lungo e in largo per l’universo cooperativo piemontese. L’ebbrezza del mercato diventa totalizzante. Novacoop fa affari con Fininvest, come a Torino Dora. Pensa di introdurre (in un istituto mutualistico!) quella specie di camelopardo che è il “socio sovventore”, in pratica un puro investitore di capitali. Si getta nel campo immobiliare, pasticcia con le aree dismesse e affida la bella sostanza di 82 milioni di euro, provenienti dalle tasche dei soci, a Giovanni Consorte per la scalata occulta di BNL, poi stroncata dalla Procura milanese. Di questa sconcia operazione resta nelle tasche di Novacoop un bel profitto di sei milioni di euro di plusvalenze. Nel 2005, accarezza con le consorelle del Nord e del Centro l’idea di comperare la maggiore impresa capitalistica italiana del settore, cioè Esselunga, ma i soldi non ci sono. Si consola quindi con le speculazioni sui titoli tossici e con la finanza creativa. Il risultato è una perdita secca, al solo bilancio 2008, di quasi 50 milioni di euro; all’Unicoop di Firenze, è andata addirittura peggio con una perdita di 193 milioni di euro. L’aspetto particolare degli investimenti borsistici di Novacoop non è approfondito da Frau, ma sarebbe sicuramente molto interessante saperne di più, per esempio, quali titoli furono coinvolti.
“La Coop non sei tu” è sicuramente un’indagine preziosa per capire la materialità di una parte del ceto politico italiano e del relativo sistema dei partiti. È un ampio serbatoio di dati su come vengono scelte e blindate le direzioni e le burocrazie cooperative; sui loro rapporti organici col potere politico centrale e locale, il solo a cui rispondono; su quanto sono pagate e soprattutto su quanto sono messe al riparo e totalmente svincolate da qualsiasi controllo della base sociale. Un altro importante elemento di riflessione è rappresentato dal localismo diffuso nel sistema cooperativo. Se da una parte l’orgoglio campanilistico è riuscito a rintuzzare qualcuna delle arroganti pretese della nuova sinistra rampante e di mercato (gustosissimo l’episodio di Nibbiola), dall’altro lato, esso testimonia un fallimento culturale della sinistra storica e lascia scoperto un terreno sul quale ha potuto radicarsi e verdeggiare una fetida gramigna leghista di malintese identità locali e di illusorie difese del territorio.
Sul piano delle proposte invece il libro di Frau è francamente spiazzante. A suo dire, la degenerazione della Coop consiste nel non essere abbastanza impresa di un libero mercato eletto a migliore dei mondi possibili. Si tratterebbe quindi di sostituire una forma di sfruttamento, il mercato protetto e la concorrenza “sleale” che ne deriva, con un’altra forma di sfruttamento, il libero mercato. Ma i vantaggi per i lavoratori e i consumatori quali sarebbero mai? Le accuse che Frau muove alla Coop sono di essere un rigurgito di socialismo reale, di agire in mercati protetti dalla politica e di non pagare le tasse. Il problema è che in Italia la libera impresa che Frau vagheggia non è mai esistita e, se adottassimo certi parametri, la principale impresa a “socialismo reale” del nostro paese non potrebbe che essere la… FIAT, dalla nascita coccolata e continuamente sostenuta dalle commesse, dai contributi, dagli incentivi, dagli sgravi, dalle fiscalizzazioni, dai favori, in poche parole da un oceano di soldi provenienti dalle casse dello stato italiano e di altri stati. Quanto alle imprese che pagano onestamente le tasse, la cosa è talmente surreale e ridicola che si commenta da sé. Queste imprese appartengono all’Empireo e non alla realtà di un paese fondato da sempre sull’ingiustizia fiscale e sull’ingiustizia di classe. Il problema va posto caso mai in termini diversi: la Coop non paga le tasse legalmente, le altre grandi imprese invece evadono ed eludono rifugiandosi nei paradisi fiscali e negli interstizi del mercato globale o infrattandosi negli studi dei commercialisti e nei gabinetti ministeriali.
Frau non si è accorto che l’omologazione è già avvenuta da un pezzo e che ha travolto non solo la Coop ma l’intero sistema: le forme partito, i sindacati e gran parte delle associazioni collaterali della sinistra storica. L’autore denuncia con rammarico i personalismi e le lotte di potere interne alla Coop. Il suo è al tempo stesso un atto di accusa ma anche di difesa del ruolo manageriale che egli ha rivestito nella Coop e che, con legittimo orgoglio, rivendica. Sulla sponda opposta, come esempio negativo, colloca ossessivamente il suo “competitor” interno: Fabrizio Gillone, il presidente di Novacoop con un passato nel PSI, poi nello PSIUP, quindi tra i lombardiani, ancora nei DS, infine al fianco delle liste civiche e di Forza Italia, con uno stipendio annuo di circa 300 mila euro, con una buonuscita di 800 mila euro, più il mantenimento degli incarichi in UNIPOL (50 mila euro) e in Aurora Assicurazioni (45 mila euro), più due pensioni, più altro ancora. Purtroppo, il dramma è che entrambi, in modo diverso, sono stati protagonisti della “mutazione genetica delle Coop”. Il dramma è che l’autoritarismo, l’arroganza monocratica, la piaggeria, la competizione, le epurazioni, gli sprechi, i personalismi, i cannibalismi, più o meno mascherati da gioco di squadra, sono l’essenza della filosofia d’impresa, sono la bandiera piantata della vittoria storica della cultura del capitale e del profitto.
Il libro pone una questione di fondo: è riformabile questa Coop dell’era globale? Certamente no, ma alla sinistra rimane un ampio terreno su cui muoversi. Per esempio, per quale motivo la Coop dovrebbe graziosamente concedere i suoi spazi ai banchi della Compagnia delle Opere di CL e non darsi da fare in prima persona, in modo sistematico e continuativo per sostenere gli operai, i precari e i disoccupati maggiormente colpiti dalla crisi? D’altra parte, i lavoratori - commesse, cassiere, magazzinieri, impiegati, operatori dei servizi, con contratti a tempo indeterminato, determinato, atipico, di collaborazione, assunti da imprese esterne o da false cooperative di facchinaggio e trasporto – sono anche all’interno del sistema cooperativo. Nella sola Novacoop nel 2008, erano più di 4 700 e, in Italia, hanno ormai superato il milione. Le loro condizioni sono peggiorate ovunque. Una legge varata nel 2001 dal governo di sinistra ha negato loro il reintegro sul posto di lavoro anche in caso di licenziamento illegittimo. A Leinì e a Galliate, sono stati rimpiazzati dall’outsourcing, ridotti a spezzatino e spostati in modo da non potersi organizzare e lottare. All’Unicoop di Firenze, un gruppo è stato licenziato con l’accusa pretestuosa, che nessun tribunale ha voluto riconoscere, di aver “rubato” delle merendine dai “rotti”, cioè dalla merce deteriorata destinata a rifiuto. All’Aquila, dopo il terremoto, per fare pressione sul comune e ottenere il permesso per costruire un nuovo supermercato, la Coop ha minacciato di mettere in mobilità tutti i suoi 90 dipendenti. In Lombardia, sono in corso le indagini su di un sistema di spionaggio, videosorveglianza e ascolto dei dipendenti Coop operante a loro insaputa. Per Coop, come per Marchionne, il lavoro è soprattutto un costo e i profitti sono diventati “rossi”. Ma di vergogna.

9 settembre 2010

Pubblicazione non periodica a cura di ass. culturale Proposta Comunista - Maggiora (NO) - CF e PIVA 91017170035
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