“Romanzo di una strage”: un film doppiamente doloroso quello di Marco Tullio Giordana sulle bombe di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Doloroso per i fatti storici che rievoca (di storia e di sangue infatti si parla e non di cronaca o di favola). E doloroso per il modo con cui porta sullo schermo quella stagione. Uno dei momenti centrali della scontro politico in Italia viene mutilato e straziato, privato della sua sostanza di classe e compresso in spezzoni di biografie parallele. Una vicenda così complessa e difficile da comunicare viene falsata da errori madornali, invenzioni gratuite e teoremi risibili. Il regista si è infatti affidato alla consulenza del giornalista parlamentare Paolo Cucchiarelli la cui inverosimile ricostruzione dei fatti è stata demolita, prima e dopo l’uscita del film, dal buon senso e dagli interventi documentati di Aldo Giannuli, Corrado Stajano, Saverio Ferrari, Adriano Sofri e altri. La pellicola scorre senza soluzione su di un crinale volutamente ambiguo, a metà tra ricostruzione storica e fantasia. L’unica certezza sono i 16 morti e, dopo una giustizia per quarant’anni inconcludente, finalmente abbiamo un film che aggiunge al silenzio di stato il “romanzo” di una strage. Ne sentivamo proprio la necessità.
In effetti, il tema del doppio sembra la cifra e il filo conduttore del film: due sarebbero le bombe esplose contemporaneamente quel tardo pomeriggio del 12 dicembre 1969, una anarchica e l’altra fascista, e due i taxi che avrebbero portato gli attentatori, per un percorso di poche centinaia di metri, all’ingresso della banca. I sosia poi si sprecano, in particolare per Valpreda/Valfreda, che di conseguenza diventa il ballerino più imitato in quei giorni.
Doppio è il gioco degli infiltrati e degli informatori che sembrano addirittura più numerosi dei pochissimi veri, e veramente ingenui, militanti anarchici. Nell’incertezza generata da questo gioco di specchi, si arriva addirittura all’aggiunta di un infiltrato (meglio abbondare…) quel tale Mauro Meli ferroviere, in realtà assunto nelle ferrovie un anno dopo la morte di Pinelli!
Senza contare che spioni a parte, in ogni caso, ci sono gli anarchici giusti, pacifici e presentabili, che cadono in basso dalle finestre, e, sul versante opposto, le teste calde, brutte e cattive; ci sono i comunisti responsabili e quelli estremisti e violenti che saltano in alto sotto i tralicci dell’alta tensione.
Dal momento che il trastullo del doppio può continuare all’infinito, come quello delle matrioske, non è nemmeno da escludere che il povero Pinelli altro non sia che il doppio di Calabresi, in un gioco di accostamenti, corrispondenze tra opposti, yin e yang, simmetrie e rimandi psicanalitici da far impallidire Otto Rank.
La doppiezza è poi nello stato: da una parte, i fedeli, sensibili e onesti servitori della legalità e della democrazia; d’altro canto, gli apparati “deviati”, i servizi segreti “fuori” controllo, le trame internazionali e i fautori di una svolta autoritaria. Dunque, nell’eterna lotta tra bene e male, c’è speranza, perché nello stato borghese ci sono sempre gli anticorpi, le scialuppe di salvataggio, quella parte un po’ più sana, buona e onesta che, in mancanza di meglio, bisogna tenersi stretta e alla quale in definitiva bisogna affidarsi. E di cui bisogna recuperare memoria.
Nessuno stupore dunque che un film, che si proclama libero e refrattario a teoremi e ideologie, alla fine naufraghi miseramente sullo scoglio di un teorema falso e battuto dalla storia, abbandonato perché inservibile perfino in sede giudiziaria: il relitto arrugginito degli opposti, e doppi, estremismi di destra e di sinistra come responsabili materiali delle tragedie di quegli anni.
Insomma, un film che vede doppio. Magari, avrebbe acquistato qualcosa di meglio da una versione in 3D. Qualcuno si è chiesto cosa potrebbe capire di quei tre anni cruciali un giovane oppure una persona che non ha mai sentito parlare di piazza Fontana. “Romanzo di una strage” aggiunge un velo, neanche tanto pietoso, sopra incrostazioni, strumentalizzazioni, confusioni, dimenticanze e depistaggi durati quarant’anni, rendendo ancora più incomprensibile un avvenimento che è all’origine delle trasformazioni più profonde che la politica, la società e la cultura italiane abbiano subìto nell’ultimo scorcio del Novecento. Inutile cercare nel film un quadro seppure vago e approssimativo della società italiana, del clima di quegli anni, delle lotte, della voglia di cambiamento e di quelle aspettative che percorsero non l’Italia ma l’intero pianeta dai campus americani ai campi di battaglia del Vietnam, dal maggio francese alle zone più impervie della Bolivia, dalle linee di Mirafiori a piazza San Venceslao.
La narrazione di Giordana si apre con l’omicidio dell’agente Annarumma, il 19 novembre 1969, e il cerchio si chiude con l’omicidio di un altro poliziotto, il commissario Calabresi, il 17 maggio 1972. In mezzo, ci sono le vittime di piazza Fontana, l’omicidio di Giuseppe Pinelli e quello di Giangiacomo Feltrinelli. In mezzo, c’è anche il fallito “colpo di stato della Madonna”, l’8 dicembre 1970, avvenimento tutt’altro che marginale per comprendere la sostanza profonda dello scontro in atto in quegli anni. Inoltre, vale la pena di rammemorare che in quell’arco di tempo muoiono: il 15 luglio 1970, Bruno Labate, militante CGIL e simpatizzante del PCI, ritrovato ucciso da un colpo di pistola dopo gli scontri tra manifestanti e carabinieri a Reggio Calabria; il 26 (o il 27) settembre 1970, Angelo Casile, Gianni Aricò, Luigi Lo Celso, Franco Scordo, Annalise Borth, componenti del gruppo anarchico reggino, tutti morti stecchiti in uno strano incidente stradale le cui dinamiche non sono mai state chiarite; il 12 dicembre 1970, primo anniversario della strage, Saverio Saltarelli, stroncato a Milano da un candelotto lacrimogeno sparato ad altezza d’uomo; il 7 maggio 1972, Franco Serantini, morto a Pisa dopo un feroce pestaggio poliziesco in perfetto stile Diaz e un’agonia durata giorni tra celle di carcere e stanze d’interrogatorio. Questa scia di sangue sgorga da piazza Fontana. Per esempio, gli anarchici calabresi stavano raccogliendo informazioni sull’attentato fascista di Gioia Tauro contro il treno del Sole (6 morti e 54 feriti) e sul “boia chi molla” di Reggio. Di questi fatti specifici nel film non si fa cenno, invece, grande spazio è riservato a due eroi borghesi: il commissario Calabresi e il leader democristiano Aldo Moro, una specie di Cassandra di centro-sinistra a cui, tra l’altro, è riservato uno spazio bulimico e sproporzionato rispetto agli avvenimenti. Che dire? Chi si ricorda più degli operai FIAT suicidi perché non reggevano alla cassa integrazione e ai licenziamenti, di fronte agli imprenditori che oggi si suicidano per debiti e sono elevati dai mezzi di comunicazione al rango di eroi civili? Evidentemente, non c’è uguaglianza, nemmeno di fronte alla morte.
“Romanzo di una strage” non contribuisce a colmare il deficit di memoria su piazza Fontana. Inutile ricercarvi traccia di quella sete di verità che mosse giornalisti come Camilla Cederna e Marco Nozza (pure rievocati nel film) oppure le decine di compagni, intellettuali, giornalisti e avvocati che condussero un durissima e difficile battaglia di controinformazione e diedero alle stampe per i tipi di Samonà e Savelli La strage di stato. Nemmeno vi è quella tensione civile che spinse migliaia di studenti e di lavoratori a contrastare giorno dopo giorno nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri e nelle piazze con gli strumenti poveri dei volantini, dei manifesti, dei capannelli, dei comizi, delle discussioni capillari le veline della televisione democristiana (già la DC: ve la ricordate?) e dei giornali padronali. Senza questa imponente mobilitazione per un film come “Romanzo di una strage”, pur con tutte le sue ambiguità, non ci sarebbe mai stato spazio. Se la verità è rivoluzionaria, non ha bisogno di ricorrere a “doppi” in realtà mai esistiti. Ci sono state certamente spaccature, divergenze e contraddizioni nei palazzi del potere (quale apparato di stato non ne ha?), ma mai sull’obiettivo strategico che fu quello di fermare a qualsiasi costo quell’imponente richiesta di giustizia, di cambiamento e di potere che veniva dai movimenti di massa e dalle classi subalterne. Su questo erano tutti d’accordo. A questo servirono le bombe e, per questo motivo, uno stato non poteva ne potrà mai processare se stesso.
Una nota interamente positiva in chiusura: bravissimi gli attori.
24 maggio 2012