Il cuore del Pacifico orientale ha le acque sempre più agitate. C’è un gran movimento di capitali, interessi e navi. Potremmo essere alla vigilia dell’ennesimo irrimediabile saccheggio delle risorse terresti in nome anzitutto del profitto e poi con la scusante del “progresso green”. Siamo nell’oceano Pacifico fra il Mexico e le Hawaii in un’area denominata frattura di Clarion- Clippperton che si estende per circa 6 milioni di km quadrati con 5000 mt di profondità. Tutto è silenzioso e buio. Proprio lì a quelle profondità si stanno rivolgendo gli appetiti delle grandi industrie estrattive di diversi Stati. Parliamo di materiali contenuti nei depositi sottomarini, quali litio, cobalto, zinco, piombo, rame, oro, tellurio, indio sotto forma di noduli polimetallici, ma anche croste sulfuree. Materiali sempre più richiesti per batterie elettriche, pannelli solari, touch screen, computer per garantire una “transizione verde” finalizzata comunque sempre al profitto esasperato e predatorio di questo sistema con consumismo, spreco poco riciclo e riuso dei materiali e degli oggetti. Intanto nell’oceano Pacifico una tra le maggiori compagnie di estrazione di metalli sottomarini la Deep Green Metals, si è ulteriormente quotata in borsa, ha una nave in zona così come un’altra società leader nel settore estrattivo la Global Sea Mineral Resours sta trasportando un prototipo di robot minerario per i test d’impatto a 4000 mt di profondità. Considerato che l’estrazione delle miniere di terraferma causa parecchi problemi, la soluzione più indolore e più redditizio per le compagnie è fare del mare e dei fondali terra di conquista. Là non può arrivare la protesta giusta dei popoli ad ostacolare o bloccare lo scempio degli Oceani. I danni che si causerebbero all’ambiente marino e poi a tutto l’ecosistema mondiale sarebbero incalcolabile e irrimediabili. Estrarre noduli polimetallici è come andare per funghi con un bulldozer. Le acque di scarico contenuti, i residui metallici possono arrivare anche a contaminare a chilometri di distanza la catena alimentare marina. Infine vi è un altro fenomeno inquinante di squilibrio dell’ecosistema marino. È l’inquinamento acustico e luminoso che impatta sugli habitat del fondo degli oceani rovinando la vita degli animali degli abissi. L’escamotage per questo nuovo profitto è semplice: l’area interessata rientra in quel 50% degli oceani che sono al di fuori di ogni giurisdizione statale. Una terra o meglio del mare di nessuno e quindi di tutti. Per vigilare su queste aree dal 1994 esiste l’Autorità per i fondali marini (ISA). Ne fanno parte 167 nazioni più l’Unione Europea, ma a decidere sul rilascio delle licenze è il Consiglio con solo 36 Stati, a porte chiuse e in modo riservato; tant’è che sono state autorizzate 30 licenze di esplorazioni a paesi come Corea, Cina, Russia, Regno Unito, Francia e Germania. In contraddizione con gli Stati che concorrono a questo ennesimo disastro, il Parlamento europeo il 9 giugno scorso ha adottato la risoluzione “EU Biodiversity Strategy for 2030, Bringing nature back into our lives” in cui si chiede alla Commissione e agli Stati membri di operare per una moratoria alla ricerca nei fondali marini, al fine di studiare gli eventuali danni alla biodiversità dell’ecosistema. La classica posizione di comodo d’opportunismo da parte dei politici che per rispondere alla protesta di forze ambientaliste, una nave di Greenpeace è già in zona, posticipa una netta e chiara posizione di difesa degli oceani. Non si può sperare che i padroni del vapore rinuncino al business, tanto più quando “serve” per “la transizione ecologica dell’economia e dello sviluppo sostenibile”. (sic!). Se poi il Pianeta muore, pazienza. Il profitto, lor signori lo avranno fatto.
alfredo perazza