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La scomparsa di Bruno Segre, decano degli avvocati torinesi e protagonista delle più importanti battaglie per i diritti civili, ha rinnovato i ricordi dei tanti momenti vissuti insieme, le discussioni e i racconti, le sue battute argute, i viaggi nei luoghi della memoria con gli studenti ai quali volle partecipare. Era amatissimo dai ragazzi e rammento il loro stupore e gli occhi sgranati quando, davanti al sacrario della Grande Guerra a Redipuglia e ai resti dei camminamenti e delle trincee spiegò che lui era nato ai primi di settembre del 1918, quando ancora tuonavano i cannoni e, fallita l’offensiva austriaca di giugno, si stava preparando la terza battaglia del Piave, la durissima e decisiva battaglia di Vittorio Veneto.

L’avvocato era un brillante affabulatore, un uomo dall’immensa cultura e dalle mille esperienze che amava intrattenersi e raccontare le esperienze di una vita che coincise con il novecentesco “secolo breve” e la prima parte dei duemila.

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In quelle occasioni si poteva assistere a vere e proprie lezioni di storia, come accadde più volte a Trieste o in Emilia, alla casa museo dei Cervi a Gattatico, al campo di transito di Fossoli (dove venne internato anche Primo Levi) o al museo della deportazione di Carpi. In quella occasione insieme a Bruno partecipò anche Franco Berlanda, grande comandante partigiano e notissimo architetto amico di grandi protagonisti del Novecento come Picasso, Giulio Einaudi e Le Corbusier.

Quando mi chiese di collaborare a L’Incontro ne fui felicissimo e onorato. Le due passioni della sua vita coincisero con le professioni che lo videro per decenni sulla ribalta della vita torinese e italiana: l’avvocatura e il giornalismo. Infatti, oltre ad indossare la toga per settant’anni con memorabili e appassionate arringhe, dopo aver collaborato a numerose e prestigiose testate fondò L’Incontro nel 1949. Un mensile indipendente, con un programma politico culturale “ispirato alla pace, alla difesa dei diritti civili, al laicismo, all’opposizione a razzismo e antisemitismo”. Quattro grandi pagine con un formato su nove colonne e la testata in rosso che, ininterrottamente per settant’anni, diede voce alle idee di quest’uomo straordinario, mai rassegnato  e sempre pronto – con un’invidiabile lucidità e impareggiabile dialettica – a dar battaglia per i suoi ideali libertari e socialisti, per la laicità delle istituzioni e per i diritti umani. Mi diede anche l’ambito tesserino di riconoscimento del giornale che conservo come una reliquia.

In occasione del suo 99° compleanno (ogni anno, fino all’ultimo, erano occasioni speciali per festeggiarlo) venne pubblicato un bel libro: "Libero pensare, una giornata nello studio dell’avvocato Bruno Segre". Un omaggio a cura di Marisa Quirico composto da 18 scatti in bianco e nero del fotografo Renzo Carboni, accompagnati da una prefazione di Davide Manzati e dagli interventi (in rigoroso ordine alfabetico) di Luciano Boccalatte, Nino Boeti, Carlo Greppi, Nico Ivaldi, Maria Mantello, Pietro Polito, Donatella Sasso e Guido Vaglio. Alberto Bolaffi, nella dedica al libro, offrì un sintetico e autentico profilo di Segre: “Caro Bruno, parafrasando Giovannino Guareschi, penso che tu sia uno dei migliori interpreti del suo pensiero quando, da prigioniero in Germania, scrisse che libertà esiste ovunque esiste un cervello libero”.Ultimo allievo di Luigi Einaudi, laureato in legge nel 1940 e discriminato dalle leggi razziali nei confronti degli ebrei, Bruno Segre venne arrestato una prima volta nel dicembre del 1942 per “disfattismo politico” e una seconda nel settembre del 1944 quando venne catturato e rinchiuso nella caserma di via Asti e poi trasferito nelle carceri Le Nuove dalle quali riuscì fortunosamente a fuggire qualche tempo dopo. Un’esperienza alla quale dedicò un libro-memoriale, "Quelli di via Asti", scritto nell’estate del 1946 ma pubblicato solo nel 2013. Partigiano nelle file di Giustizia e Libertà, antifascista tutto di un pezzo e irriducibile paladino delle battaglie per la laicità e i diritti civili, Bruno Segre è stato protagonista delle più importanti vicende lungo un secolo intero. Una su tutte: la difesa, davanti al Tribunale militare di Torino nel 1949 di Pietro Pinna, il primo obiettore di coscienza in Italia.

Bruno Segre è stato tutto questo e molto altro. Le foto di Carboni contenute in quel libro, scattate nello storico studio dell’avvocato al n.11 di via della Consolata, ci regalano un’immagine di quella wunderkammer tra imponenti schedari e tantissimi libri. Era lì, al secondo piano di un antico palazzo del settecento che, entrando nello studio di Segre, il fotografo ebbe l’impressione di “attraversare lo specchio di Alice”. Era un luogo dove si respirava l’aria di una storia che vide protagonista un uomo che, parlando di se stesso e parafrasando il titolo di un suo libro-intervista, poteva affermare a testa alta e senza alcun timore di non essersi mai arreso.

Marco Travaglini

Celestino “Nini” Rosso, la “tromba d’oro” era nato a Mondovì nel 1926 e imparò a suonare lo strumento a fiato che lo rese celebre all’oratorio, diplomandosi poi al conservatorio. Durante la Resistenza, dai primi di giugno del 1944 fino alla liberazione, fu partigiano nella Brigata Val Maira della 2° Divisione Giustizia e Libertà, con Giorgio Bocca e Detto Dalmastro. Il suo nome di battaglia, che successivamente utilizzò nella sua carriera artistica, era Nini.

Nell’immediato dopoguerra, Rosso fu il primo trombettista italiano a dedicarsi al jazz e, sul finire degli anni Quaranta, dopo aver vinto un concorso in RAI, entrò a far parte dell’orchestra Angelini. In quegli anni animò la scena jazzistica suonando al fianco di Fred Buscaglione, Sergio Fanni, Leandro Prete e il suo amico Piero Angela che prima di diventare il grande divulgatore culturale che tutti hanno conosciuto si esibiva come talentuoso pianista con il nome d’arte di Peter Angela.

Nel ’57 Nini Rosso entrò a far parte dell’ orchestra di Armando Trovajoli e divenne noto al grande pubblico nel 1961 con La ballata di una tromba. Il suo primo disco riscosse un discreto successo e nel 1963 partecipò alla colonna sonora del film L'amore difficile, scritta dal maestro Piero Umiliani con il brano Vicolo dell'amore 43.

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Il 16 settembre 1973 venne barbaramente ucciso, durante il Golpe di Pinochet contro il governo socialista di Allende, Victor Jara

Cresciuto in una famiglia povera, assieme alla musica e ai canti, scopre anche l’amore per il teatro, recitando e dirigendo egli stesso numerose rappresentazioni. Membro della Nueva Cancion Cilena, un movimento culturale e musicale improntato alla riscoperta del folclore popolare Nel frattempo, diventa un importante militante del Partito Comunista Cileno: le sue stesse canzoni diventano presto un manifesto per la lotta di classe, la difesa dei più deboli, una denuncia contro ogni dittatura. L’11 settembre 1973, giorno del golpe dei generali agli ordini di Pinochet, Victor è all’università. Tratto in arresto, il suo destino è simile a quello degli altri desaparecidos cileni: dopo essere stato rapito, portato allo stadio di Santiago del Cile, il corpo senza vita del cantante-militante venne rinvenuto per strada, con evidenti segni di tortura su tutto il corpo, raggiunto da oltre quaranta ...continua a leggere "CILE, L’ASSASSINIO DI VICTOR JARA"

di Marco Travaglini

«Son la mondina, son la sfruttata; son la proletaria che giammai tremò. Mi hanno uccisa e incatenata: carcere e violenza nulla mi fermò. Coi nostri corpi sulle rotaie noi abbiam fermato il nostro sfruttator; c’è tanto fango nelle risaie, ma non porta macchia il simbol del lavor…» Questo celebre motivo, entrato a far parte del repertorio della canzone popolare e di protesta del dopoguerra, venne scritta sulle note di O rondinella che voli per l’aria, un brano che veniva eseguito nelle risaie tra Piemonte e Lombardia. L’autore fu Pietro Besate, uno dei “padri costituenti” della Regione, consigliere eletto nelle liste vercellesi del Pci nel 1970 e riconfermato nella seconda legislatura nel 1975. Originario di Borgovercelli, dov’era nato il 26 novembre del 1919 (e dove morì a 64 anni, dopo una breve malattia, l’11 gennaio del 1984).

Besate si distinse come uno dei punti di riferimento nelle contrattazioni per le rivendicazioni di braccianti e mondariso della zona, fino a diventare, dal 1945, ...continua a leggere "PIETRO BESATE, LA VOCE CANORA DELLE MONDINE"

Per valsesiani ma non solo, l’ultimo libro di Alessandro Orsi sulla “Piassa Granda” di Borgosesia. Come ha dimostrato Mario Isnenghi nel suo saggio del 1994, L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, la piazza può rivelare aspetti determinanti, a volte non altrimenti visibili, della vita sociale, dello sviluppo economico e dello stesso scontro di classe. In Italia, questo spazio urbano, antica eredità dell’agorà greca, si configura negli ultimi due secoli come il luogo pubblico della lotta politica dove alle trasformazioni nell’uso della piazza si accompagnano cambiamenti profondi della società e della vita civile. Questa considerazione ha valore non solo per i centri maggiori ma anche per aggregati più piccoli come Borgosesia. Qui, la Piassa Granda non è stata solo centro di riti collettivi, come quello carnevalesco del Mercu scurot, oppure di aggregazione sociale ma anche ...continua a leggere "UNA PIASSA “GRANDA” COME IL CUORE PARTIGIANO"

Panzieri in Sicilia durante l'occupazione delle terre (1950)

Il 14 febbraio1921, nasceva a Roma Raniero Panzieri. È occasione utile, questa del centenario, per ricordarlo e, soprattutto, per tornare a leggere e meditare le sue opere. A causa delle leggi razziali, Panzieri non poté completare gli studi ed entrò in contatto con la rete clandestina antifascista della capitale. Nel 1945 si iscrisse al PSI, all’interno del quale militò per un lungo periodo. L’anno seguente, ricoprì la carica di segretario dell’Istituto di Studi socialisti di Rodolfo Morandi e nel 1949 si trasferì all’Università di Messina per insegnare Filosofia. Furono anni difficili, caratterizzati dalla guerra fredda, dal dominio politico della DC, sostenuta dalla chiesa, ma anche da imponenti lotte di massa che, in Sicilia, ebbero come momento culminante l’occupazione delle terre da parte di braccianti e contadini poveri. Panzieri prese ...continua a leggere "RANIERO PANZIERI, CENTO ANNI DOPO"

Purtroppo, il conto rimane aperto. Un libro senza dubbio utile, questo di Francesco Filippi ma anche un’occasione mancata. Ma perché siamo ancora fascisti? – come suggerisce quel «Ma» iniziale – rappresenta la continuazione del discorso iniziato con Mussolini ha fatto anche cose buone. Edito nell’aprile scorso, in pieno lockdown, il nuovo saggio di Filippi parla di fascismo e antifascismo, questioni che, nonostante la negligenza dei media e della “politica”, rimangono quanto mai attuali e scottanti.

Il soggetto sottinteso e, al tempo stesso, i destinatari di quel «siamo ancora fascisti» sarebbero «gli italiani», o meglio, come l’autore precisa, «la “zona grigia” della coscienza storica del nostro paese». L’impresa appare quasi disperata, soprattutto per il “grigiore” dei potenziali interlocutori, per il terreno scelto e per il momento in cui viviamo, ma l’intenzione è lodevole.

Il libro è diviso in due parti. Nella prima – Cosa non è stato tolto di mezzo – Filippi  affronta alcune delle ragioni che hanno permesso a uomini e a pezzi significativi del passato regime di riciclarsi e radicarsi nella repubblica: le vicende della RSI e del Regno del sud, la mancata epurazione, il riassetto degli apparati dello stato, il sostanziale fallimento del tentativo di contrastare il neofascismo attraverso la legislazione, dalla XII disposizione della Costituzione fino alle leggi Scelba (1952) e ...continua a leggere "FRANCESCO FILIPPI MA PERCHÉ SIAMO ANCORA FASCISTI. UN CONTO RIMASTO APERTO"

“La locomotiva” è la più popolare delle canzoni composte da Francesco Guccini, pezzo forte dell’album “Radici” del 1972

di Marco Travaglini

«…E che ci giunga un giorno ancora la notizia di una locomotiva come una cosa viva, lanciata a bomba contro l’ingiustizia». Così termina “La locomotiva”, la più popolare delle canzoni composte da Francesco Guccini, pezzo forte dell’album “Radici” del 1972. In tantissimi l’hanno cantata, ritmandone le strofe, ma non è facile stabilire in quanti davvero sanno che questa ballata si riferisce ad un fatto realmente accaduto che vide protagonista il ventottenne anarchico bolognese Pietro Rigosi.

Era il 20 luglio 1893 quando Rigosi, aiuto macchinista (per l’esattezza, fuochista) delle Ferrovie del Regno d’Italia, impadronitosi di una locomotiva in sosta, la mise in moto, lanciandola sui binari alla velocità di cinquanta chilometri all’ora che per quei tempi era davvero notevole. La locomotiva, immatricolata con il numero “3541”, era una delle centotrenta unità della Rete Adriatica e trainava un treno merci. Quel ...continua a leggere "LA LOCOMOTIVA DI PIETRO RIGOSI CHE GUCCINI TRASFORMÒ IN BALLATA"

di Marco Travaglini

 

Ventitre anni fa, nell’aprile del 1996, usciva per Baldini & Castoldi , “Il pesce elettrico” di Enrico Fovanna, il primo e forse unico romanzo scritto da un italiano sul popolo curdo (premio Stresa 1996 e premio Festival Romanzo Esordiente, Salone del Libro di Torino 1997). Un mese prima dell’uscita del libro, Fovanna –  all’epoca trentaseienne, nato a Premosello in Val d’Ossola, nel nord del Piemonte – era stato arrestato dalla polizia turca a Diyarbakir. Curiosamente il libro racconta proprio la vicenda di Pietro, un reporter incarcerato da Ankara perché sospettato di collaborare con il Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, movimento che si batte per la liberazione del popolo di quella che è stata definita  «la più grande nazione al mondo senza stato». In uno dei rari casi in cui la fantasia letteraria precede la realtà, il protagonista de “Il pesce elettrico”  –  inviato di guerra italiano –  scompare nel momento in  cui viene liberato – cinque anni dopo l’arresto – e lo fa mentre  tre colleghi del suo giornale (due uomini e una donna: Stefano, Alfredo e Barbara ) sono partiti con lo scopo di rintracciarlo. ...continua a leggere "IL PESCE ELETTRICO E IL KURDISTAN"

È nelle librerie “Requiem per la Bosnia”, il nuovo volume di Barbara Castellaro pubblicato da Infinito Edizioni nella collana Orienti, con l’introduzione e le fotografie di Paolo Siccardi e la postfazione di Marco Travaglini. Quello della scrittrice è un reportage che apre una finestra, soprattutto sotto il profilo umano, alla scoperta di cos’è stata, cos’è e forse cosa potrà essere la Bosnia Erzegovina, terra martoriata dal conflitto nella prima metà degli anni ’90 del secolo scorso proprio sul crinale tra Occidente e Oriente, in quella che viene definita l’Europa “di mezzo”. Un libro che racconta il grumo d’emozioni, gioie e dolore che pesano nell’anima della gente che abita e abitava quei territori balcanici, dove Barbara ha colto la vitalità di un popolo che ha sofferto pene indicibili, la sua necessità di non ...continua a leggere "REQUIEM PER LA BOSNIA, UN LIBRO DI BARBARA CASTELLARO"

Pubblicazione non periodica a cura di ass. culturale Proposta Comunista - Maggiora (NO) - CF e PIVA 91017170035
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