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La memoria di Giacomo Matteotti è associata alla barbara esecuzione fascista di cento anni fa. Poche volte è ricordato per il suo impegno militante, nella vita quotidiana o per il ruolo svolto nello sviluppo del socialismo italiano. Proprio in queste dimensioni voglio riproporlo con le parole della “nostra” Abigaille Zanetta che con lui lavorò in un momento cruciale della storia del movimento operaio e del socialismo italiano durante le elezioni dell’autunno 1913.

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La Carta di Chivasso denunciava che il fascismo aveva condotto le valli alpine alla rovina economica «per la dilapidazione dei loro patrimoni forestali ed agricoli, per l'interdizione della emigrazione con la chiusura ermetica delle frontiere, per l'effettiva mancanza di organizzazione tecnica e finanziaria dell'agricoltura, mascherata dal vasto sfoggio di assistenze centrali, per la incapacità di una moderna organizzazione turistica rispettosa dei luoghi; condizioni tutte che determinarono lo spopolamento alpino».

Queste parole rappresentano fedelmente anche lo stato delle nostre montagne. Nel 1927, il fascismo aveva istituito la nuova provincia di Vercelli comprendente la Valsesia e la parte alpina del Biellese. Tuttavia alla provincia di Novara erano rimasti i monti e le valli del lago d’Orta, del Verbano e dell’Ossola. Su 156 comuni ben 89 erano considerati montani. Essi occupavano il 58% della superficie dove viveva il 42% della popolazione della provincia. Si trattava di una montagna “magra” ben lontana dalle potenzialità produttive della Valle d’Aosta o delle valli orientali ma anche inadatta ai modelli invasivi di turismo alpino che il regime aveva sviluppato al Sestriere o a Cortina.

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(Valdimir Majakovskij, 1924)

Domenica 21 gennaio 1924, alle ore 18.50, moriva Vladimir Il’ic Ul’janov Lenin. Nato a Simbirsk il 22 aprile 1870, dal maggio 1923 soggiornava a Gor’kij, a poche decine di chilometri da Mosca, a causa del peggioramento delle condizioni di salute che ne avevano duramente limitato il contributo allo sviluppo della rivoluzione e del partito bolscevico. Senza dubbio incisero sulla sua prematura scomparsa l’instancabile ed enorme attività generosamente dedicata all’organizzazione proletaria, i lunghi e massacranti periodi di detenzione sotto la feroce autocrazia zarista, le fatiche e le privazioni della clandestinità e delle guerre e, ultimo, l’attentato terroristico del 30 agosto 1918 che ne minò irrimediabilmente il fisico. Lenin morì in un momento cruciale della storia del movimento comunista internazionale. L’Unione sovietica, che aveva dovuto respingere in condizioni estreme l’aggressione scatenata congiuntamente a est e a ovest dagli eserciti dei vincitori della guerra mondiale, era assediata, stremata sul piano economico e contrastata su quello politico. All’interno del partito comunista fiammeggiava una cruda lotta di tendenze i cui tratti deleteri erano stati denunciati da Lenin stesso nel suo noto Testamento. In un’Europa devastata, impoverita e ormai aggiogata all’egemonia degli Stati uniti, le classi dominanti andavano tessendo una sudicia rete di intese con le formazioni nazionaliste, razziste e di estrema destra di cui il fascismo rappresentò la prima sanguinosa realizzazione. A cento anni di distanza, l’eredità del leader comunista appare vitale e intatta, giganteggia di fronte all’inconsistente nanismo di una sinistra balbettante che ha reciso brutalmente le sue radici sociali e ha voluto rinnegare la sua ragione di essere. Lenin rimane un punto di riferimento insostituibile prima di tutto per il suo esempio di vita e quindi per gli apporti alla teoria e alla prassi del movimento comunista, in particolare per la battaglia condotta per il ripristino del pensiero marxiano, per l’attualissima teoria dell’imperialismo e per le riflessioni sull’organizzazione, la tattica e la strategia del partito rivoluzionario. Confinato tra il 1895 e il 1900 in Siberia, prese il nome da uno degli imponenti corsi d’acqua del grande nord. Lenin, “l’uomo del fiume Lena”, visse, vive e vivrà, limpido come quelle acque, maestoso come la loro portata, travolgente contro gli sfruttatori come la loro collera.

Il 9 aprile 1927, a Dedham, contea di Norfolk, diventava definitiva la sentenza di morte contro Sacco e Vanzetti. Il 23 agosto 1927, benché innocenti, furono assassinati sulla sedia elettrica nella prigione di stato del Massachusetts a Boston. Nicola lasciava la moglie Rosina, l’adorata figlia Ines e il figlio Dante. Bartolomeo le due sorelle Luigina e Vincenzina. Gli anarchici, gli antifascisti e il PCd’I, nonostante la spessa cappa di piombo calata dallo stato fascista, avevano lanciato l’ultima generosa ma purtroppo vana mobilitazione. In quei giorni infatti, non mancarono le proteste. Si trattò in gran parte di iniziative simboliche che, proprio perché non furono individuati i responsabili, non potevano lasciare traccia nei tribunali e nelle cronache dell’epoca sottoposte al rigido controllo della censura fascista. Fanno eccezione pochi episodi: il rinvenimento il 10 agosto nel palazzo della Borsa di Milano di due bombe, anonime quanto di paternità incerta, e, il giorno seguente, lo sciopero degli operai dei Cantieri di San Marco di Trieste. Poi, il 22 agosto, furono fermati alla stazione di Modena con pacchi di manifestini di protesta tre giovani comunisti. Nei giorni seguenti, i contadini di Genzano scioperarono e si trovano in piazza per protestare contro l’esecuzione di Sacco e Vanzetti: furono caricati a decine sui camion e incarcerati tutti a Roma. Manifestarono alcuni operai di San Benedetto del Tronto, tradotti davanti al tribunale speciale. A Trapani, il 23 settembre 1927, due cittadini furono arrestati per scritte murali e per l’affissione di manifesti che protestavano contro la condanna di Sacco e Vanzetti. Per aver organizzato manifestazioni di protesta contro la condanna di Sacco e Vanzetti furono processati dal tribunale speciale di Roma, l’8 giugno 1928, i leccesi Rocco Spina, Giuseppe Lodedo, Leonardo Chirulli e Giovanni Putignano; il 21 luglio 1928, i torinesi Giulio Cortesi, Marco Gatti, Attilio Amigoni e Alessio Ponzio; il 10 agosto 1928, Delfo Mannini di Siena e Bruno Monterumici di Bologna. Il 28 agosto 1928, comparvero invece davanti ai giudici fascisti Silvio Bertona, contadino e muratore di Fontaneto d’Agogna, e i borgomaneresi Antonio Maioni, fruttivendolo, Bartolomeo Pagani, tornitore, Antonio Tozzini, operaio setaiolo, Gaudenzio Pagani operaio, Bartolomeo Giacometti carrettiere, Giovanni Maioni contadino e Vittorio Tozzini operaio tessile. I giovani, accusati di aver solidarizzato un anno prima con Nick e Bart, scontarono pene comprese tra i cinque e i due anni più quelle accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, di tre anni di vigilanza speciale della PS, cioè la morte civile, e del pagamento delle onerose spese processuali. Ancora oggi, Nick e Bart, milioni di lavoratori che nel mondo si mobilitarono per la loro salvezza e tutti coloro che per aver esercitato il loro diritto di parola e di manifestare patirono il carcere, i tribunali e le fetide stanze della polizia, tutti attendono giustizia.

Cinquant’anni fa, il 16 maggio 1972, sul cantiere di lavoro di Romentino, moriva Alessandro Boca, il comandante partigiano Andrej. Il suo cuore generoso, che non aveva tremato nei combattimenti contro i nazisti e che aveva retto il dolore al sacrificio di Paolo Alleva, di Gaudenzio Pizio e di tanti altri compagni, si era fermato per sempre. Era nato il 22 novembre 1920 alla Cacciana di Fontaneto d’Agogna, una comunità impermeabile al fascismo e fiera del proprio patrimonio di lotte e ideali di giustizia sociale. Al suo interno, i comunisti si muovevano come pesci nell’acqua, “avvocati dei poveri”, che per vent’anni avevano subito senza piegarsi il carcere, il confino e le persecuzioni della dittatura. Quella di Andrej era stata un’esistenza di impegno civile e di studio, sorretta dalla volontà di imparare, prima di tutto, dal «libro della vita». Si era iscritto ai giovani comunisti il Primo maggio 1937, dedicandosi al Soccorso rosso e alla lotta clandestina negli anni bui della guerra di Spagna, quando il fascismo inscenava le prove generali dell’alleanza con la Germania nazista e della ormai imminente guerra mondiale. Aveva una bella voce e amava la musica. Suonare il mandolino o la chitarra era anche un modo per riconoscersi tra spiriti liberi, per fare amicizia e allegria in un mondo nel quale per contadini e operai c’era ben poco da rallegrarsi. Poi la musica cambiò e lo stesso Andrej, anni dopo, intitolò il giornale della sua formazione partigiana “Quando canta il mitra”. ...continua a leggere "QUANDO CANTAVA ANDREJ"

Proponiamo il contributo di Davide Conti postato l’11 febbraio 2022 su “Rifondazione comunista”

Il lager fascista di Arbe

Lettera agli ex jugoslavi. Ieri [10 febbraio 2022] una circolare del Ministero dell’Istruzione ha paragonato le foibe alla Shoah giungendo all’estremo della falsificazione storica. Ci saranno polemiche ma basterà dichiarare che è stata una svista. Intanto però questo aberrante concetto lo faremo circolare pubblicamente ed è questo l’importante perché sarà il primo passo per una sua diffusione nel senso comune.
Cari amici della ex-Jugoslavia, Vi scriviamo dopo che qui in Italia è appena trascorso il giorno del ricordo istituito per commemorare le vittime delle foibe del settembre-ottobre 1943 e del maggio 1945.
Sappiamo che il 10 febbraio è una data storica che riguarderebbe il Trattato di Pace di Parigi del 1947 e non le foibe, ma questa fa parte del modo italiano di rileggere il passato.
È un giorno importante poiché grazie a questa memoria selettiva; alla retorica istituzionale che da anni la accompagna; alla strumentalizzazione che ne fa l’estrema destra parlamentare e non; alla messa all’indice degli studiosi che osanodiscuterlo, noi possiamo usare il ricordo per dimenticare.

Nel giorno del ricordo noi dimentichiamo:

...continua a leggere "IL GIORNO DEL RICORDO ITALIANO È FATTO PER DIMENTICARE"

La sinfonia n.7 di Šostakovič, l'eroismo di una città e la miseria del revisionismo

Il 22 giugno 1941 la Germania nazista scatenò l'assalto all'Unione Sovietica. La città di Leningrado era uno dei tre obiettivi prioritari dell'Operazione Barbarossa a causa della posizione strategica della città, la presenza della base della flotta del Baltico e di importanti industrie oltre che del valore simbolico che rappresentava agli occhi di Hitler la culla del bolscevismo sovietico. Il generale Halder annotò nel proprio diario, l'8 luglio del 1941: “l'inflessibile decisione del Fuhrer è di radere al suolo Mosca e Leningrado onde disfarsi interamente della popolazione di queste città”. La sua mancata conquista fu una delle più dure sconfitte della “guerra lampo” che Adolf Hitler aveva sognato di terminare in sei o otto settimane. Il 30 agosto 1941, le divisioni tedesche raggiunsero il fiume Neva, tagliando le comunicazioni ferroviarie e, con esse, la possibilità di rifornire di viveri e materiale bellico la città. L'8 settembre l'accerchiamento era completo. Iniziò così un assedio che sarebbe ...continua a leggere "RICORDO DEGLI EROI DI LENINGRADO"

Sessant’anni fa, il 17 ottobre 1961, chiamati dalla Federazione francese del Fronte di liberazione nazionale, gli algerini scesero in piazza a Parigi per manifestare contro il coprifuoco imposto dal prefetto di Parigi Maurice Papon, che, più di trent’anni dopo, nel 1997, sarebbe stato condannato per le gravi responsabilità avute nella deportazione antisemita durante la repubblica filonazista di Vichy. Quella manifestazione del 17 ottobre fu duramente repressa nel sangue dalla polizia. Oltre undicimila manifestanti finirono arrestati e concentrati nel palazzo dello sport e nello stadio “Pierre de Coubertin”. Fu una strage di stato e il numero reale delle vittime ancora oggi non è noto per il silenzio che cadde sull’intera vicenda e sui responsabili. In realtà, il sanguinoso massacro parigino si poneva al culmine di un crescendo di violenza organizzata dallo stato francese per tutti i sette anni precedenti durante i quali si era sviluppata la lotta anticolonialista del popolo algerino. ...continua a leggere "60 ANNI FA IL MASSACRO DEGLI ALGERINI A PARIGI"

Riceviamo, condividiamo e pubblichiamo

Il nostro dolore di sempre per il golpe cileno del 11 settembre 1973. Voluto, pianificato, guidato e finanziato dagli Usa. Onore a Salvador Allende e ai compagni cileni massacrati, torturati, esiliati. In queste ore di retorica ributtante, riproduco qui un messaggio di compagni cileni inviato questa mattina.

«Gli Stati Uniti commemorano oggi la tragedia dell'11 settembre 2001, che costò la vita a 3.000 vittime innocenti. Joe Biden visiterà i tre luoghi iconici degli attacchi terroristici avvenuti vent'anni fa. I media di tutto il mondo celebrano questo evento storico e mediatico. Seguono programmi speciali, reportage, interviste, testimonianze diurne e notturne.
Ma questi stessi media ignoreranno, silenziosamente o quasi, un altro evento storico e drammatico come se gli statunitensi avessero il monopolio e l'esclusività di questa data. Questo è l'11 settembre 1973. Sebbene sia ovvio che è necessario parlare dell'11 settembre 2001 e denunciare il massacro di innocenti.
Ma non si può parlare della dittatura di Pinochet senza evocare il socialismo cileno ...continua a leggere "11 SETTEMBRE 1973. UN’ALTRA STORIA"

Pubblicazione non periodica a cura di ass. culturale Proposta Comunista - Maggiora (NO) - CF e PIVA 91017170035
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