Celestino “Nini” Rosso, la “tromba d’oro” era nato a Mondovì nel 1926 e imparò a suonare lo strumento a fiato che lo rese celebre all’oratorio, diplomandosi poi al conservatorio. Durante la Resistenza, dai primi di giugno del 1944 fino alla liberazione, fu partigiano nella Brigata Val Maira della 2° Divisione Giustizia e Libertà, con Giorgio Bocca e Detto Dalmastro. Il suo nome di battaglia, che successivamente utilizzò nella sua carriera artistica, era Nini.
Nell’immediato dopoguerra, Rosso fu il primo trombettista italiano a dedicarsi al jazz e, sul finire degli anni Quaranta, dopo aver vinto un concorso in RAI, entrò a far parte dell’orchestra Angelini. In quegli anni animò la scena jazzistica suonando al fianco di Fred Buscaglione, Sergio Fanni, Leandro Prete e il suo amico Piero Angela che prima di diventare il grande divulgatore culturale che tutti hanno conosciuto si esibiva come talentuoso pianista con il nome d’arte di Peter Angela.
Nel ’57 Nini Rosso entrò a far parte dell’ orchestra di Armando Trovajoli e divenne noto al grande pubblico nel 1961 con La ballata di una tromba. Il suo primo disco riscosse un discreto successo e nel 1963 partecipò alla colonna sonora del film L'amore difficile, scritta dal maestro Piero Umiliani con il brano Vicolo dell'amore 43.
Ottant’anni fa, dal 1 all’8 marzo del 1944, gli operai torinesi incrociarono le braccia con uno sciopero generale che coinvolse 70.000 lavoratori. Da Torino l’agitazione si espanse nelle altre regioni del Nord. Fu la prima, unica e imponente mobilitazione generale dei lavoratori nell’Europa occupata dai nazifascisti con parole d’ordine che rivendicavano l’essenziale trinomio di “pane, pace e libertà”. Persino il New York Times ne scrisse in questi termini nella sua edizione del 9 marzo 1944.
Nella mattinata del 7 marzo, un convegno organizzato a Torino dalla Camera del Lavoro, in collaborazione con Anpi Torino e Fondazione Di Vittorio, ha ripercorso quegli eventi.
A Torino, dove le proteste operaie dopo gli scioperi del marzo dell’anno precedente erano continuate nei mesi successivi all’armistizio dell’otto settembre e nei mesi di gennaio e febbraio 1944, lo sciopero generale scattò nonostante le “ferie” imposte dalle autorità di governo piemontesi il 29 febbraio con la scusa della mancanza di energia elettrica. Il primo marzo, con tutte le fabbriche ferme, il capo della provincia Paolo Zerbino (successivamente nominato sottosegretario agli Interni della Repubblica di Salò) ordinò la ripresa del lavoro, minacciando la chiusura degli stabilimenti, la conseguente perdita delle retribuzioni, e un giro di vite con arresti, licenziamenti e deportazioni. I lavoratori non si fecero intimidire.
Il 13 marzo la Provincia di Novara dopo il parere favorevole del Comune di Maggiora, autorizza la nuova discarica di “rifiuti inerti” di circa 200.000 mc, in località Fornaci SP 31 A.
Giunge l’autorizzazione alla discarica dopo un iter burocratica di circa 12 mesi fatti di decisa opposizione da parte dei Cittadini di Maggiora, del Comitato Cittadini Maggiora green e per primi dalla nostra Associazione Proposta Comunista di Maggiora. La Provincia di Novara unitamente ai 5 componenti del Consiglio Comunale di Maggiora, Balzano Roberto Sindaco, Vallana Sergio Vice Sindaco, Conti G.Carlo consigliere, Savastano Adele consigliera, Zucchet Dario consigliere.HANNO IGNORATO IL PARERE E LA LEGGITTIMA MOTIVATA OPPOSIZIONE DEI CITTADINI MAGGIORESI. HANNO CALPESTATO E DISPREZZATO LA DEMOCRAZIA. E’ un segnale grave di autoritarismo, di miopia politica e culturale, di volontà predatoria e di sfruttamento del territorio. Un pesante avvertimento anche per il futuro. Una scelta scellerata dettata per favorire l’interesse e il profitto privato a danno del bene comune della collettività. Un danno irreversibile per la comunità di Maggiora e di tutto il territorio. In 13 anni Maggiora diventerà la pattumiera del Novarese. E’ lo sarà per sempre. Grazie a questi Amministratori Pubblici il futuro dei nostri figli a Maggiora sarà vincolato dalla discarica.NON DIMENTICHIAMOLO.mProposta Comunista circolo di Maggiora che per primi abbiamo denunciato e lottato contro anche questa discarica RINGRAZIA tutte le donne, gli uomini di Maggiora il Comitato Cittadini Maggiora green che hanno in modo civile e democratico profuso impegno e tempo contro questo scempioambientale.La nostra lotta comunque continua, per difendere la salute pubblica, il territorio e il futuro delle nuove generazioni. Ricominciamo da questa grave situazione, da questa sconfitta per costruire undomani diverso e migliore. Maggiora merita di meglio. Noi ci saremo come sempre, AMIAMO MAGGIORA.
La Carta di Chivasso denunciava che il fascismo aveva condotto le valli alpine alla rovina economica «per la dilapidazione dei loro patrimoni forestali ed agricoli, per l'interdizione della emigrazione con la chiusura ermetica delle frontiere, per l'effettiva mancanza di organizzazione tecnica e finanziaria dell'agricoltura, mascherata dal vasto sfoggio di assistenze centrali, per la incapacità di una moderna organizzazione turistica rispettosa dei luoghi; condizioni tutte che determinarono lo spopolamento alpino».
Queste parole rappresentano fedelmente anche lo stato delle nostre montagne. Nel 1927, il fascismo aveva istituito la nuova provincia di Vercelli comprendente la Valsesia e la parte alpina del Biellese. Tuttavia alla provincia di Novara erano rimasti i monti e le valli del lago d’Orta, del Verbano e dell’Ossola. Su 156 comuni ben 89 erano considerati montani. Essi occupavano il 58% della superficie dove viveva il 42% della popolazione della provincia. Si trattava di una montagna “magra” ben lontana dalle potenzialità produttive della Valle d’Aosta o delle valli orientali ma anche inadatta ai modelli invasivi di turismo alpino che il regime aveva sviluppato al Sestriere o a Cortina.
Il Giorno – e non «la giornata» – della memoria nasce per scelta istituzionale e ha natura diversa dalla memoria di classe, costruzione collettiva e antagonista al potere.
Domenica 21 gennaio 1924, alle ore 18.50, moriva Vladimir Il’ic Ul’janov Lenin. Nato a Simbirsk il 22 aprile 1870, dal maggio 1923 soggiornava a Gor’kij, a poche decine di chilometri da Mosca, a causa del peggioramento delle condizioni di salute che ne avevano duramente limitato il contributo allo sviluppo della rivoluzione e del partito bolscevico. Senza dubbio incisero sulla sua prematura scomparsa l’instancabile ed enorme attività generosamente dedicata all’organizzazione proletaria, i lunghi e massacranti periodi di detenzione sotto la feroce autocrazia zarista, le fatiche e le privazioni della clandestinità e delle guerre e, ultimo, l’attentato terroristico del 30 agosto 1918 che ne minò irrimediabilmente il fisico. Lenin morì in un momento cruciale della storia del movimento comunista internazionale. L’Unione sovietica, che aveva dovuto respingere in condizioni estreme l’aggressione scatenata congiuntamente a est e a ovest dagli eserciti dei vincitori della guerra mondiale, era assediata, stremata sul piano economico e contrastata su quello politico. All’interno del partito comunista fiammeggiava una cruda lotta di tendenze i cui tratti deleteri erano stati denunciati da Lenin stesso nel suo noto Testamento. In un’Europa devastata, impoverita e ormai aggiogata all’egemonia degli Stati uniti, le classi dominanti andavano tessendo una sudicia rete di intese con le formazioni nazionaliste, razziste e di estrema destra di cui il fascismo rappresentò la prima sanguinosa realizzazione. A cento anni di distanza, l’eredità del leader comunista appare vitale e intatta, giganteggia di fronte all’inconsistente nanismo di una sinistra balbettante che ha reciso brutalmente le sue radici sociali e ha voluto rinnegare la sua ragione di essere. Lenin rimane un punto di riferimento insostituibile prima di tutto per il suo esempio di vita e quindi per gli apporti alla teoria e alla prassi del movimento comunista, in particolare per la battaglia condotta per il ripristino del pensiero marxiano, per l’attualissima teoria dell’imperialismo e per le riflessioni sull’organizzazione, la tattica e la strategia del partito rivoluzionario. Confinato tra il 1895 e il 1900 in Siberia, prese il nome da uno degli imponenti corsi d’acqua del grande nord. Lenin, “l’uomo del fiume Lena”, visse, vive e vivrà, limpido come quelle acque, maestoso come la loro portata, travolgente contro gli sfruttatori come la loro collera.
Il colpo di pistolina che ha fatto gorgogliare ancora una volta nella palude dei mass media i nomi dei parlamentari di FdI Andrea Delmastro ed Emanuele Pozzolo segna indubbiamente una svolta nella cultura della destra. Macché Atreju, quali pacifici hobbit! La nuova storia infinita è un revival piuttosto fascistoide di gringo e degli “spaghetti western”. Il maggior partito al governo ha liquidato l’ennesimo episodio di degrado e discredito del sistema politico borghese come un fatto privato, di nessuna rilevanza politica. Già, quando il privato viene stravolto e serve a fare il lifting e a rendere meno maleodorante la rumenta del regime o a “riabilitare” gerarchi e criminali fascisti, va bene. Quando il privato altrui, nell’assoluta mancanza di argomenti, diventa ingrediente della macchina del fango per feroci attacchi personali contro gli avversari, è rilevante ed è sicuramente politico. Quando invece rivela le responsabilità, il vuoto umano e l’essenza profonda di questa destra, viene gettato nel bidone delle magagne individuali. Al contrario, la mini (in tutti i sensi) sparatoria di Rosazza possiede una chiara dimensione politica che accomuna e coinvolge quell’area politica e sociale che va dal neofascismo al leghismo dove trovano audience, amoroso consenso e voti intercambiabili i partiti al governo. In primo luogo, ancora una volta, il fatto di Rosazza mette impietosamente a nudo la degenerazione dei meccanismi di selezione dei politici all’interno dei partiti e nelle istituzioni. Un sistema che si ritiene democratico e che consente a tali personaggi di raggiungere i posti di maggiore responsabilità dello stato è un fatto politico. L’esasperazione securitaria, il culto delle armi, della violenza e della guerra, la difesa a “spada tratta” di poliziotti o secondini che massacrano cittadini affidati alla loro custodia, di bottegai che considerano più importanti le loro merci della vita di un essere umano, le impunità e i privilegi reclamati a grandi urla nonché ostentati a fronte della cancellazione o della mitigazione dei propri illeciti sono fatti politici. Poi, come non intravedere dietro a certi atteggiamenti il modello di un costume aggressivo, arrogante, sprezzante nei confronti delle stesse istituzioni borghesi, provocatorio e rissoso, non alieno da plateali esibizioni pubbliche di pistole e mitragliatori, quale fu quello interpretato da Gianluca Buonanno? Gli schizzi della sua eredità politica nelle terre che furono suoi terreni di caccia elettorale a quanto pare non sono ancora venuti meno.
Chi esprime opinioni diverse rischia di imboccare la pericolosa china della criminalizzazione. Ultimi bersagli della potenza di fuoco della moderna macchina del fango sono gli youtuber Barbasofia, GioPizzi, Grieco e Mortebianca, che contano in rete un pubblico di oltre un milione e 200 mila naviganti. Per aver denunciato il massacro senza fine del popolo palestinese, sono stati definiti da “Il Giornale” «l’esercito che tifa per Hamas» e accusati di spargere odio e di instillare «il germe del pregiudizio contro Israele». Con una strizzatina d’occhio intimidatoria, di uno di loro viene anche dato in pasto ai lettori il nome del mestiere, della città in cui vive e del posto in cui lavora: un invito neanche tanto velato a chi di dovere di darsi da fare. Insomma, siamo alle solite vecchie cose di pessimo gusto o di retrogusto antico. “Il popolo d’Italia” fu per tutti gli anni del fascismo pioniere di questa spietata macchina del fango. Sulle sue pagine gli oppositori venivano attaccati sul piano personale, privato e persino intimo, imbrattati di insulti, incriminati con false accuse, sporcati nella loro dignità e spogliati della loro umanità. I manganelli, la polizia politica o quella di stato, il tribunale speciale, il carcere, il confino o il manicomio completavano l’annientamento del malcapitato senza contare che la punizione poteva estendersi a famigliari, conoscenti e amici e colpire beni e lavoro. Dopo il miserevole crollo della dittatura, i partigiani, la classe operaia, molti uomini e donne hanno lottato per rendere questo paese più pulito e giusto. Tuttavia quella disonestà, quell’ignoranza e quella barbarie politica, squallide eredità del fascismo, hanno continuato a essere una subdola e rozza arma nelle mani del potere e delle classi dominanti. Come dimenticare quel sordido apparato di schedature, dossieraggi e depistaggi, ricatti, malafede e falsità, becera propaganda, omertà, occultamenti e insabbiamenti, sceneggiate e montature che si è via via allargato come una macchia nera sulla storia della repubblica? Negli ultimi decenni abbiamo visto il dilagare del “pensiero” unico neoliberista, la concentrazione di giornali, televisioni e mass media, la decadenza culturale e civile del paese e la riduzione della partecipazione politica prima a spettacolo poi a tifoseria, mentre venivano inaridite le vene della controinformazione, della capacità critica della società civile e del giornalismo indipendente e libero. Così oggi i professionisti della provocazione, dopo aver contribuito a costruire gli hooligans della politica, dopo aver urlato a squarciagola dalle curve, chiamano sui loro giornali «tifoso» chi guarda in faccia alla realtà. Loro che sono tifosi del massacro di bambini, donne e civili palestinesi accusano gli altri di spargere odio quando hanno condotto e continuano a istigare volgari campagne d’odio e disinformazione contro gli immigrati, i poveri e gli emarginati, i giovani del reddito di cittadinanza, i precari, i diritti delle minoranze e di tutti e contro qualsiasi forma di opposizione sociale. In poche parole, vogliono imporre il silenzio e, ribaltando il significato della parola, chiamarlo «verità», «libertà di parola» o magari «democrazia».
Discarica zona Fornaci, SP 31a. Ricordiamo in proposito: l’escavazione di ben tre bacini (buchi) per un totale di 220.074 m³ di rifiuti, inerti di ben 37 tipologie diverse, fra i quali scarti di lavorazione, di bonifiche industriali con possibili presenze di percentuali di amianto; un’attività di discarica di ben 11 anni con due anni di lavoro necessari per la sua chiusura; la presenza di pozzi di acqua potabile in località Bergallo di Cureggio sottostante l’area della discarica; la vicinanza di abitazioni civili, industrie, attività artigianali e agricole nel raggio di poche centinaia di metri; la strada provinciale SP31a stretta e senza banchina, insufficiente a sostenere un traffico di camion e tir: aumenterà anche il traffico verso il nostro Paese perché il coltivo asportato dai buchi verrà convogliato verso la zona Comiona di Borgomanero; la continua distruzione del territorio e del suolo; l’inquinamento, il degrado e la perdita definitiva di un’ampia porzione del territorio comunale; la necessità di cambiare il Piano Regolatore del Comune di Maggiora trasformando i terreni da agricoli in discarica.
Riteniamo che l’Amministrazione comunale non debba effettuare questa scelta e che possa opporsi. Il Comune di Maggiora ha voce importante e definitiva per rifiutare la discarica. Altri Comuni lo hanno fatto. Ricordiamo che il nostro territorio ha già dato come in località Morosa ove esiste già una discarica esaurita. Sia convocato da parte dell’Amministrazione Comunale un dibattito pubblico senza avere paura della voce dei cittadini. Siano ascoltate le oltre mille persone che hanno firmato la petizione popolare contro la discarica per salvaguardare la salute pubblica, l’ambiente, il suolo e il futuro del nostro Paese.
NO ALLA DISCARICA e AL CAMBIO D’USO DEI TERRENI
SÌ ALLA SALUTE PUBBLICA, ALLA DIFESA DELL’AMBIENTE, AL FUTURO DI MAGGIORA, CITTA’ DELL’ARCH. ANTONELLI E CITTA’ DEL VINO
NO MAGGIORA CITTÀ DELLE DISCARICHE, DIRE NO, OPPORSI È UN DOVERE DI RESPONSABILITA’ VERSO IL FUTURO DEI NOSTRI FIGLI. IMPEGNAMOCI
NOI AMIAMO MAGGIORA
PROPOSTA COMUNISTA
Associazione nazionale di promozione sociale e senza scopo di lucro per promuovere la cultura comunista e la realizzazione della società socialista in Italia - Circolo di Maggiora
Il 9 aprile 1927, a Dedham, contea di Norfolk, diventava definitiva la sentenza di morte contro Sacco e Vanzetti. Il 23 agosto 1927, benché innocenti, furono assassinati sulla sedia elettrica nella prigione di stato del Massachusetts a Boston. Nicola lasciava la moglie Rosina, l’adorata figlia Ines e il figlio Dante. Bartolomeo le due sorelle Luigina e Vincenzina. Gli anarchici, gli antifascisti e il PCd’I, nonostante la spessa cappa di piombo calata dallo stato fascista, avevano lanciato l’ultima generosa ma purtroppo vana mobilitazione. In quei giorni infatti, non mancarono le proteste. Si trattò in gran parte di iniziative simboliche che, proprio perché non furono individuati i responsabili, non potevano lasciare traccia nei tribunali e nelle cronache dell’epoca sottoposte al rigido controllo della censura fascista. Fanno eccezione pochi episodi: il rinvenimento il 10 agosto nel palazzo della Borsa di Milano di due bombe, anonime quanto di paternità incerta, e, il giorno seguente, lo sciopero degli operai dei Cantieri di San Marco di Trieste. Poi, il 22 agosto, furono fermati alla stazione di Modena con pacchi di manifestini di protesta tre giovani comunisti. Nei giorni seguenti, i contadini di Genzano scioperarono e si trovano in piazza per protestare contro l’esecuzione di Sacco e Vanzetti: furono caricati a decine sui camion e incarcerati tutti a Roma. Manifestarono alcuni operai di San Benedetto del Tronto, tradotti davanti al tribunale speciale. A Trapani, il 23 settembre 1927, due cittadini furono arrestati per scritte murali e per l’affissione di manifesti che protestavano contro la condanna di Sacco e Vanzetti. Per aver organizzato manifestazioni di protesta contro la condanna di Sacco e Vanzetti furono processati dal tribunale speciale di Roma, l’8 giugno 1928, i leccesi Rocco Spina, Giuseppe Lodedo, Leonardo Chirulli e Giovanni Putignano; il 21 luglio 1928, i torinesi Giulio Cortesi, Marco Gatti, Attilio Amigoni e Alessio Ponzio; il 10 agosto 1928, Delfo Mannini di Siena e Bruno Monterumici di Bologna. Il 28 agosto 1928, comparvero invece davanti ai giudici fascisti Silvio Bertona, contadino e muratore di Fontaneto d’Agogna, e i borgomaneresi Antonio Maioni, fruttivendolo, Bartolomeo Pagani, tornitore, Antonio Tozzini, operaio setaiolo, Gaudenzio Pagani operaio, Bartolomeo Giacometti carrettiere, Giovanni Maioni contadino e Vittorio Tozzini operaio tessile. I giovani, accusati di aver solidarizzato un anno prima con Nick e Bart, scontarono pene comprese tra i cinque e i due anni più quelle accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, di tre anni di vigilanza speciale della PS, cioè la morte civile, e del pagamento delle onerose spese processuali. Ancora oggi, Nick e Bart, milioni di lavoratori che nel mondo si mobilitarono per la loro salvezza e tutti coloro che per aver esercitato il loro diritto di parola e di manifestare patirono il carcere, i tribunali e le fetide stanze della polizia, tutti attendono giustizia.
Pubblicazione non periodica a cura
di ass. culturale Proposta Comunista - Maggiora (NO) - CF e PIVA 91017170035
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