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Sale il malcontento per il vertiginoso aumento del prezzo dei carburanti. Come sempre, le casse dello stato aggrediscono i beni essenziali per soddisfare la loro insaziabile fame di denaro. Come sempre lo fanno in questo periodo dell’anno. Come sempre, di fronte a questa rapacità, non tutti sono uguali perché colpisce i lavoratori e le cosiddette fasce deboli della popolazione.  Infatti, non solo questi aumenti immiseriscono i già magri bilanci delle famiglie proletarie e peggiorano l’esistenza di quelle in condizione di povertà, ma si configurano come un gigantesco e vigliacco trasferimento di risorse dalle tasche di chi ha poco a quelle di chi continua realizzare ingenti profitti. Infatti, la crescita del prezzo dei carburanti significa un aumento dell’imposizione indiretta il cui peso è inversamente proporzionale al reddito: esattamente il contrario del principio di progressività fiscale contenuto nella costituzione. In poche parole, i redditi delle classi basse pagano molto di più rispetto a quelli medio-alti e alti che, per di più, già godono del conforto di una sistematica evasione fiscale, dell’assenza di controlli, dello sfruttamento del lavoro nero e non mancano di speculare sullo smantellamento dello stato sociale, della sanità, del sistema pensionistico, della scuola e dell’assistenza. Ancora, gli aumenti rappresentano un chiaro ammiccamento a compagnie petrolifere ma anche ad amici, parassiti, pataccari e piccoli speculatori: per voi la prateria è libera, la caccia è aperta, senza regole, e vinca il peggiore. Forse è questo il “merito” di cui si sciacquano la bocca ministri senza lode perché questa è stata la virtù del fascismo: aver ridotto già una volta il Paese in miseria. Esattamente come nel ventennio fascista, questo governo toglie ai poveri per dare ai ricchi. Per il momento, ha messo al posto dei manganelli tutto l’impatto violento di un capitalismo straccione ma non per questo meno ingordo e ripugnante.

Quanti migranti morti in mare equivalgono a cinque ricchi avventurieri che si rinchiudono in un batiscafo, poco più grande di una fossa, per profanare la pace dell’immensa bara del Titanic? Qualche decina? Centinaia? Migliaia? Non esiste risposta, così come non c’è misura, né pudore, né “moralità” nella deregulation della comunicazione mediatica, specialmente quando si ha a che fare coi miti di carta o di celluloide ai quali questo sistema si aggrappa con le unghie per perpetuare se stesso e il proprio dominio ideologico. Così si piange e si ciancia in tutto il mondo per l’implosione del Titan, mentre per i poveri che in tutto il mondo scompaiono in mare non c’è voce né umanità. Intanto c’è il dispiegamento eccezionale di mezzi (il cui costo è per ora stimato attorno ai 6, 5 milioni di dollari!) e ci sono le ricerche continuate per giorni, mentre cresceva la canea mediatica, nonostante fosse già abbastanza chiara la sorte del piccolo sottomarino. Al confronto la povertà o l’assenza o l’abolizione dei mezzi per il soccorso dei migranti in mare parla da sé. Intanto c’è la mercificazione della morte. L’immensa tragedia del 1912 viene trasformata in un mercato turistico dell’orrore, in uno spettacolo per pochi, per coloro che in questi decenni di sconvolgimenti sociali hanno preso l’ascensore sociale oppure si sono arricchiti oltre misura, hanno nuotato nei superprofitti, hanno beneficiato al di là di ogni criterio di rendite, di speculazioni e di parassitismo. Come parassita appare la piccola bati-scatoletta subacquea che li contiene e che si nutre del grande cadavere del transatlantico adagiato sul fondo dell’oceano. Intanto si perpetua il mito del tutto falsato dello stesso Titanic che non trasportava solo dame impellicciate e ingioiellate, amanti perduti e orchestrine che suonano incuranti dei gorghi, dei boati e delle acque montanti, ma anche e soprattutto lavoratori del mare e povere famiglie di emigranti, donne, bambini, braccia da lavoro, tutti stipati nei ponti più bassi, negli slum oscuri della luccicante nave del piacere. La tragedia del Titanic fu soprattutto una tragedia di questi proletari che, più di cento anni dopo, diventano carne da spettacolo per i ricchi di oggi. Intanto il neoliberismo perpetua la sua idea malata e devastante di libertà, quella che con la tecnologia e con i soldi, con tanti soldi si può fare tutto e tutto può diventare mercato al di là del bene, del male e della vergogna: sfidare gli abissi o passeggiare nello spazio in un tranquillo week end d’incoscienza, salire su di una Lamborghini e ammazzare qualcuno per una “ragazzata”, mettere un vulcano in miniatura in una delle proprie ville e ridere a crepapelle quando erutta, andare al di là sempre e comunque dei limiti “umani”. Anche nel 1912, in piena Belle Èpoque, incombeva la stessa atmosfera delirante che due anni dopo annegò nella prima guerra mondiale. L’affondamento del Titanic ne fu in qualche misura il preannuncio e il monito. A cosa preluderà l’implosione del Titan?

A chi andrà l’eredità politica di Berlusconi? La sua morte potrebbe comportare una polarizzazione nel campo delle destre con una migrazione piuttosto consistente dall’involucro plastificato ormai malaticcio di FI ai meloniani? Anche se ciò avvenisse, non sarebbe la fine del berlusconismo. La sua stagione esplose nei primi anni Novanta del secolo scorso quando ormai si era definitivamente consumata una sconfitta storica della classe operaia europea. La lotta della FIAT e quella dei minatori inglesi, prolungatasi per un anno, ne furono alcune delle punte più alte, per certi aspetti epiche. Seguirono il dilagare delle politiche neoliberiste, il crollo dei regimi del cosiddetto socialismo reale, da cui trassero origine le attuali sanguinarie oligarchie dell’est europeo, la crisi dell’ordine internazionale uscito dalla seconda guerra mondiale e la rapida liquefazione della sinistra parlamentare italiana. Berlusconi non ebbe alcuna parte in questi esiti, impegnato com’era a riscuotere la sua quota dell’eredità craxiana e a trafficare le basi del proprio impero immobiliare, finanziario e mediatico. Arrivò dopo, per fare affari, quando la battaglia si era conclusa con la schiacciante vittoria di classe della borghesia. L’azione spregiudicata dell’ometto di Arcore, nel grande nulla di fine millennio, mescolò, come spesso è avvenuto nella storia italiana, aspetti di modernizzazione e di inguaribile arretratezza della nostra classe dominante. Tra questi ultimi lo sfacciato disprezzo per le regole, le leggi, la magistratura, l’impianto costituzionale, la promiscuità con alcune delle figure più imbarazzanti della politica internazionale e della società italiana, il tradizionale rozzo anticomunismo, lo sdoganamento del fascismo, il velleitarismo più sfrontato, l’inverecondo culto della personalità (e della chirurgia estetica), la volgarità intellettuale, l’ignoranza promossa a merito, il paternalismo peloso, l’ostentazione tronfia del lusso e dei simboli del potere, l’inciviltà strisciante imbellettata di barzellette e battute ridanciane e via dicendo. Insomma, ha interpretato al “meglio”, aggiornandoli, decorandoli con miti mediatici e adattandoli ai tempi, i caratteri intimi dell’ideologia del nostro capitalismo straccione. Per questo, il berlusconismo non può finire con lui. Il caimano avrà funerali di stato e molti coccodrilli giornalistici e tante lacrime di coccodrillo: il destino spregiudicato di un pregiudicato.

Nella mattinata di ieri un operaio edile di 62 anni è caduto da un ponteggio dall’altezza di cinque-sei metri ed è ricoverato in gravi condizioni. Stava lavorando alla ristrutturazione dell’Istituto tecnico industriale “Giacomo Fauser” di Novara. Si tratta di un altro incidente, un appuntamento col pericolo, se non con la morte, diventato ormai amaro pane quotidiano per i lavoratori, ma si tratta anche di un incidente che svela il punto in cui è giunto l’imbarbarimento e l’attuale degrado dei rapporti di lavoro. In primo luogo, la disgrazia è avvenuta nel settore dell’edilizia, uno dei più rischiosi ma anche uno di quelli maggiormente interessati dallo sfruttamento e dal lavoro nero e irregolare (proprio oggi, un’ispezione dei carabinieri ha portato a denunce in sette cantieri del Verbano, maglia nera in Italia per le morti sul lavoro). In secondo luogo, un uomo di 62 anni, al termine di una vita lavorativa usurante, dovrebbe avere l’umano diritto di godere di una meritata pensione o almeno di non essere sottoposto a mansioni così faticose e rischiose. In terzo luogo, l’infortunio si è verificato presso un ente dello stato dove il riguardo per la persona e il rispetto delle normative dovrebbero essere tali da impedire simili eventi. Viene annunciata proprio per la messa in sicurezza degli edifici scolastici, che versano in condizioni miserevoli per l’incuria e la negligenza delle diverse amministrazioni, una pioggia di denaro. Per il solo Omar è prevista una spesa di tre milioni e 300 mila euro e qualcuno già inneggia al 2023 come «l’anno dei cantieri». Ci chiediamo: «e la sicurezza degli operai che vi lavoreranno?» Le destre hanno costruito parte del loro consenso sulle tematiche securitarie contrapponendo le paure generate dalla crisi e dal degrado della società alla vera sicurezza: quella di lavorare senza essere sfruttati e senza dover morire, quella di essere curati, assistiti in caso di bisogno, di godere del diritto allo studio, di avere un salario o una pensione dignitosi, di poter partecipare e contare nelle decisioni, insomma la sicurezza sociale. Hanno riempito le galere di piccoli spacciatori e i cimiteri di morti sul lavoro.

Uno dei chiodi su cui batte la propaganda governativa è la denuncia della “egemonia culturale della sinistra” e la necessità di porre fine a questa intollerabile situazione. Dunque, in un Paese in cui ignoranza e analfabetismo di ritorno rappresentano una vera e propria emergenza umana, il problema sarebbe l’«egemonia» della cultura della sinistra. Notiamo che il termine «egemonia», usato in questo contesto, rimanda alla teoria di Antonio Gramsci, il primo segretario del Partito Comunista d’Italia assassinato nel 1937 dal fascismo. Non c’è da stupirsi: chi non ha idee ammazza i pensatori e cerca di impedire che i loro cervelli funzionino per poi stravolgerne e falsificarne il pensiero. Infatti, il senso che Gramsci dava all’egemonia era tutt’altro, ma è bene non approfondire l’argomento: si raffredderebbe il chiodo arroventato della propaganda governativa per la quale la parola “sinistra” (che, pare, sia priva del plurale) è uguale a “comunismo” (anche questo senza plurale).

Ora, bisognerebbe capire come possa la presunta massa granitica dei comunisti esprimere una supposta egemonia in un paese in cui tutto il sistema televisivo è concentrato nelle mani di Berlusconi (il cui partito è al governo) e del governo stesso; dove stampa ed editoria sono quasi totalmente sotto il controllo delle destre e dei gruppi economici dominanti; dove il sistema dell’istruzione pubblica è stato devastato e immiserito nella sua funzione fondamentale di fornire un’educazione critica e pluralista; dove la rete e i social sono la giungla della disperazione sociale, dei narcisismi e dei più bassi istinti; dove la società civile boccheggia e si inaridisce; dove non solo manca un partito comunista, ma milioni di lavoratori, immigrati, disoccupati, poveri non hanno difese né rappresentanza politica né voce; dove l’opposizione parlamentare ha da decenni rinnegato ogni richiamo non solo al marxismo ma spesso allo stesso patrimonio sociale e politico di due secoli di storia e di lotte del movimento operaio italiano. Questa opposizione, che gode ancora di qualche stonata voce in capitolo, è caso mai degradata a una sinistra liberal, una marmellata irrancidita, una copia alquanto sbiadita e inopportuna di quella statunitense che, appunto, niente ha mai avuto né vuole spartire col comunismo. Sono le classi dominanti, da sempre, a esprimere la loro egemonia culturale altro che «egemonia della sinistra»! Allora, il gioco di parole è scoperto: scalzare un inesistente dominio della cultura di sinistra altro non è che uno specchietto per le allodole. Il vero obiettivo è quello di stracciare la Carta costituzionale, di passare sopra alle stesse garanzie borghesi, al diritto internazionale e, come dimostra l’ignobile gestione della questione migratoria, alle minime norme di convivenza civile e umanità, di fare a pezzi quello che rimane delle conquiste del movimento operaio sotto il regime repubblicano.

: LA FAMOSA INVASIONE DELLA CULTURA DI SINISTRA

Accanto a quello di donne, bambini e uomini che fuggono da guerre, fame, crisi economiche e disastri ambientali, si sta ingrossando un altro flusso migratorio: quello dei migranti di partito che sempre più numerosi, dalla Lega e da Forza Italia, cercano sui loro barconi un porto sicuro in Fardelli d’Italia. Quanto drammatica e dolorosa è la posizione dei primi, tanto penosa e buffonesca è la condizione dei secondi. Gaetano Nastri, il leader novarese di FdI, accogliendo con soddisfazione l’ultimo sbarco, quello del consigliere comunale cittadino, l’ex forzitaliota Marco Gambacorta, si è schermito dichiarando di non aver fatto alcuna campagna acquisti. «Insomma arrivano da soli come mosche attratte dal miele» commenta con gentilezza un opinionista on line. Tuttavia, esistono due tipi di mosche: quelle della frutta, che condividono coi moscerini il piacere delle sostanze zuccherine, e quelle domestiche che, con i mosconi e gli scarabei stercorari, prediligono ben altri profumini. A quale delle due categorie appartengano i nuovi arrivati poco importa. Le masse oceaniche che inneggiavano al fascio si sono squagliate nello spazio di poco tempo e, all’atto dell’insurrezione del 25 aprile, ne è rimasto solo qualche rigagnolo maleodorante. Oggi, basta provvedersi di un buon flit antifascista.

La specie umana è per natura nomade e da dove provenissero i primi abitanti dell’Italia poco si sa. Si dice che molti fossero indoeuropei o che gli etruschi venissero dalla Lidia, ma è certo che la penisola fu colonizzata prima dai fenici, semiti, e poi dai greci, senza contare le diverse popolazioni celtiche o galliche che si accomodarono tra le Alpi e il Rubicone. L’imperialismo romano fece dell’Italia la destinazione sia dei provinciali ricchi sia degli schiavi che in gran numero provenivano dal Mediterraneo, dall’Asia, dall’Africa settentrionale e dal nord dell’Europa. Quando l’impero entrò in crisi, arrivarono i cosiddetti barbari, seguiti da longobardi, bizantini, normanni, ungari, franchi, tedeschi, angioini, aragonesi, arabi e, dopo il medioevo, da francesi, spagnoli, svizzeri, lanzichenecchi, turchi, barbareschi, austriaci, ungheresi, croati, africani delle colonie e, con la seconda guerra mondiale, non hanno mancato di lasciare i segni del loro passaggio persino le truppe degli alleati. Tutti, chi più chi meno, hanno generato figli e mescolato il loro DNA, le loro lingue e le loro culture con i residenti. I dominatori si sono uniti con i potenti e i poveri con gli sfruttati. Dove sia l’identità e la purezza etnica dell’Italia di cui tanto si dice non si sa, ma è certo che il nazionalismo e il fascismo di ieri e di oggi hanno raccolto il peggio di questo multicolore passato e di questo grigio presente.

Pubblicazione non periodica a cura di ass. culturale Proposta Comunista - Maggiora (NO) - CF e PIVA 91017170035
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